Da quando è iniziata, ormai due anni fa, la pandemia da Covid 19 abbiamo sentito ripetuti allarmi riguardo alla salute mentale di tutta la popolazione e degli adolescenti in particolare. I commentatori sui mezzi di informazione sono passati dall’incolpare i giovani di comportamenti pericolosi (ricordate le “feste in discoteca” e gli “aperitivi affollati sui Navigli” dell’estate 2020?) al compatirli per i lunghi periodi di isolamento sociale e il disastro della dad.
Ma cosa ci dicono i dati raccolti sul campo dai centri che si occupano di disagio in età giovanile? Da poco sono usciti due studi molto significativi: il primo, incentrato sull’abito milanese, a cura del IRCCS Ospedale San Raffaele Turro e AMU (Ambulatori Milanesi Unificati), entrambi sotto la responsabilità del dott. Raffaele Visintini, e il secondo a opera dell’Unità Organizzativa Complessa Prevenzione e Interventi Precoci (UOC PIP) del DSM ASL Roma 1, che conta fra i suoi utenti ben 110.000 persone fra i 14 e i 25 anni.
In primo luogo i numeri che emergono da entrambi i rapporti sono concordi nel confermare che il ricorso ai servizi dei giovani è aumentato di almeno 50% tra 2019 (cioè in periodo pre-pandemico) e 2020, con un abbassamento dell’età media (oltre il 60% sono under 35) e una prevalenza del genere femminile (circa l’80%).
È pur vero, annotano gli studiosi milanesi, che una maggiore consapevolezza del disagio psicologico e dunque il ricorso ai percorsi di cura potrebbero essere stati favoriti dal lockdown stesso. Il maggior tempo passato in casa di figli e genitori potrebbe aver portato alla luce problemi latenti, così come e la possibilità di accedere alle terapie online durante i lockdown può aver facilitato i giovani (più a loro agio nel mondo della comunicazione online) rispetto alle modalità tradizionali.
In ogni caso, sulla base dei dati raccolti, i terapeuti milanesi hanno voluto capire se, e in che modo, la pandemia abbia impattato sui meccanismi di regolazione emotiva, somministrando ai pazienti un questionario di autovalutazione (il DERS – Difficulties in Emotion Regulation Scale). Ebbene, quello che è emerso dalle risposte è “un generale aumento della disregolazione emotiva, in particolare per ciò che concerne la regolazione delle emozioni ‘forti’ e una concomitante riduzione della capacità di utilizzare strategie flessibili di regolazione emotiva appropriate al contesto e alle richieste situazionali”. Come spiegare questa diminuita capacità di moderazione emotiva? Gli autori del rapporto ipotizzano che la reclusione domestica, la mancanza della regolazione data dagli orari della scuola, dalle attività fuori casa e dalla vita sociale in generale siano all’origine della maggiore difficolta di regolare le proprie emozioni.
La pandemia ha prodotto il disagio o lo ha svelato?
Gli spunti forniti dai ricercatori dell’ASL Roma 1 portano ulteriori spunti di analisi. Dal loro osservatorio è emerso che è sì indubbio un aumentato ricorso ai servizi da parte di giovani e adolescenti, ma ciò si è verificato a partire non dal primo lockdown (primavera 2020) ma dall’autunno dello stesso anno, con il rientro a scuola dei ragazzi. Genitori e professori si sono cioè trovati di fronte a un fenomeno inatteso e per certi aspetti paradossale: “Gli studenti non avevano alcuna voglia di tornare in classe. Genitori e professori assistevano attoniti al fallimento delle loro aspettative: per mesi avevano tutti sostenuto che l’assenza di relazioni reali fosse un elemento di grande sofferenza e ora le loro tesi si trovavano a essere completamente disattese”. Per spiegare questo fenomeno gli autori dello studio ipotizzano che la pandemia non abbia prodotto ma piuttosto abbia svelato un tema cruciale per i giovani della cosiddetta generazione Z: la paura dell’Altro. “È l’altro in quanto portatore di alterità che mette a disagio e che spinge a rifugiarsi in un mondo reso sicuro dall’essere sempre simile a se stesso”: oggi i ragazzi e gli adolescenti sono cioè portati a cercare il simile, non il diverso da sé, che mette paura. E questa fuga dall’Altro si traduce in un’impossibilità a crescere come soggetti autonomi che non si fanno mettere in crisi dal confronto con il mondo esterno, condannando questi ragazzi a restare in uno stato di “indeterminatezza”. Una condizione tale per la quale spesso questi giovani e adolescenti, pur presentando un evidente disagio, non riescono a concretizzarlo in un sintomo preciso, catalogabile secondo le categorie tradizionali, ma “errano” fra vari sintomi, rendendo difficile una diagnosi e una cura. I terapeuti del gruppo di studio romano hanno coniato per questo fenomeno l’affascinante definizione di “erranza del sintomo”.
Il ruolo dei social media
In tutto questo qual è stato il ruolo dei social media, tanto spesso additati come causa del disagio adolescenziale? Gli autori di entrambi gli studi concordano nell’affermare che certo l’ossessione per il confronto con gli altri, che appaiono sempre più belli e felici nelle foto postate sui social, è una fonte di crisi per l’adolescente in cerca della sua identità. Ma è anche vero, notano acutamente gli autori milanesi, che nei lunghi periodi di reclusione domestica per via della pandemia i social hanno assolto anche una funzione positiva di “mediatori”: sono stati l’unico modo che i ragazzi hanno avuto per restare in contatto con i coetanei e spesso anche un prezioso strumento per trovare informazioni rispetto alla salute mentale, aiutandoli a riconoscere i loro problemi in quelli che altri utenti condividevano e rendendo più facile una richiesta di aiuto.
Gianluigi Di Cesare, Isabella Panaccione, Erranza del sintomo e crisi identitaria. Riflessioni su adolescenza e pandemia, sulla rivista «Psicobiettivo» 3/2021 LINK
Ilaria Carretta, Antonella Di Biase, Stefania Bruzzese, Raffaele Visintini L’effetto delle misure di lockdown sulla capacità di regolazione emotiva degli adolescenti. Uno studio su due realtà cliniche, sulla rivista «Psicobiettivo» 3/2021 LINK
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