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Mamme e attacchi di panico

Siamo mamme da appena pochi giorni o lo siamo già da qualche mese e improvvisamente un bel giorno, magari mentre stiamo facendo la spesa o stiamo andando al lavoro iniziamo ad accusare strani sintomi: tremore, tachicardia, affanno, giramenti di testa, senso di svenimento, sudorazione. Pochi intensi minuti in cui facciamo fatica a capire cosa ci stia accadendo, un picco di maggiore intensità e poi di nuovo la calma. Molto spesso è così che si manifesta per la prima volta un attacco d’ansia o di panico.

Ansia e attacchi di panico, perché?

Il più delle volte la paura che si è sperimentata nel vivere un evento simile lascia dentro di noi strascichi di incertezze, dubbi e domande alle quali è difficile rispondere. Se si è mamme o neo-mamme queste coinvolgeranno anche nostro figlio. Perché mi è capitata una cosa del genere? E se impazzissi e perdessi il controllo quando sono con mio figlio? E se un evento simile mi dovesse ricapitare in sua presenza? Pensieri come questi, oltre a essere dolorosi, possono diventare costanti e accompagnarci durante l’intera giornata.

Questo accade perché la nostra mente ha bisogno di dare senso alle esperienze che vive (esigenza di coerenza) ma a volte nel tentativo di darsi una spiegazione capita che ci si spaventi ancora di più. Alcune mamme possono pensare che sia un problema cardiaco o una malattia fisica in generale, alcune possono pensare di stare per impazzire, alcune possono non ritenersi più in grado di badare a sé e al proprio bambino.

Comportamenti protettivi e di evitamento

Spesso il senso di fallimento e di sfiducia verso se stesse che si manifesta in seguito a un attacco d’ansia o di panico porta a due tipi di comportamenti: i comportamenti protettivi, come quello di non rimanere sole con il bambino o di portare con se farmaci per l’ansia, e i comportamenti di evitamento, come quello di non guidare più la macchina o di non fare la fila alla cassa del supermercato o in banca.

Purtroppo, entrambi i comportamenti recano un sollievo solo temporaneo e peggiorano il quadro dei sintomi ansiosi: più si mettono in atto questi comportamenti, più le convinzioni errate su noi stesse e sull’ansia non troveranno una smentita. Ciò che peggiora è anche il senso di efficacia personale: più evitiamo le situazioni temute più ci sentiremo inadeguate e perderemo fiducia nelle nostre capacità di mamme e di donne. Infine può capitare che “un evitamento tiri l’altro”: si inizia evitando una situazione o un luogo e si finisce con l’evitare qualsiasi cosa fino quasi a isolarsi.

A complicare la questione, già spinosa di per sé, si aggiunge infine una gestione non corretta dei sintomi d’ansia: per esempio spesso, per diminuire l’affanno, si può cercare di respirare profondamente facilitando l’emergere di sintomi di iperventilazione come capogiri, aumento della mancanza di respiro o dissociazione.

La paura di impazzire per l’ansia è infondata

Ma è possibile impazzire a causa dell’ansia? Siamo veramente madri indegne o incapaci solo perché l’ansia è entrata nella nostra vita? Direi proprio di no. Siamo sempre le stesse donne in gamba che siamo sempre state e i sintomi ansiosi ci fanno solo sentire più fragili. Tuttavia convincersene non è facile ed evitare di giudicarsi neanche. Accettare di avere l’ansia e sentirsi comunque valide non è semplice. Se poi solitudine e angoscia prendono il sopravvento anche le cose più banali come cambiare il nostro bambino o cucinare qualcosa appaiono delle sfide insormontabili. Vi è mai capitato di sentirvi così?

“Non sono una buona mamma”: accettare il genitore che siamo

Eccetto rare situazioni patologiche, nel momento in cui si diventa genitori si rincorre lo scopo di essere bravi genitori, possibilmente eccezionali se non addirittura perfetti. Come afferma la mia collega Claudia Perdighe nel suo libro Il linguaggio del cuore, ogni genitore vuole essere un bravo genitore per il proprio figlio e poiché questo scopo è molto importante il genitore spesso può sentirsi sotto pressione, come se dovesse tutti i giorni superare il Test Del Bravo Genitore (che grazie al cielo non esiste!) La mente umana funziona così: più teniamo a qualcosa, più facilmente abbiamo paura di fallire. Ecco alcune tra le paure più diffuse:

“Non lo amo abbastanza”

Alcune mamme possono essere terrorizzate dall’idea che il loro egoismo impedisca loro di amare sufficientemente il proprio figlio. Come se ci fosse un organo deputato all’amore genitoriale e loro ne fossero sprovviste. Per esempio ci si può sentire in colpa per il fatto di sentirsi dispiaciute di perdere alcune occasioni lavorative o di dover dividere le attenzioni del marito con i propri figli. Questa paura come anche le altre può farci soffrire tantissimo e impedirci di godere davvero del tempo con nostro figlio.

“I miei problemi psicologici e la mia storia influenzeranno negativamente mio figlio” 

Mi è capitato più volte di dover rassicurare alcune mamme sul fatto che le loro difficoltà psicologiche non necessariamente avrebbero influito negativamente sul proprio figlio. Le ricerche in effetti ci dicono che il fatto che un genitore abbia un disturbo mentale influisce negativamente sulla salute del bambino. Ma a questo punto dobbiamo fare due precisazioni. La prima è che la differenza la fanno i comportamenti che il genitore assume nel quotidiano: un genitore depresso che si sforza di essere presente, di accudire il proprio figlio e farlo sentire amato fa correre al proprio figlio molti meno rischi di un genitore che non ha nessun disturbo mentale ma che magari non è attento ai bisogni del bambino o si spaventa di fronte alle sue emozioni. La seconda precisazione è che non necessariamente un bambino, figlio di un genitore con un disturbo mentale, sarà un adulto con difficoltà psicologiche: a volte l’essere in contatto con la sofferenza di una figura genitoriale ci rende adulti saggi, consapevoli e ricchi di risorse interne.

“Non sono un bravo genitore come gli altri”

In questo caso il genitore si confronta con gli altri genitori e temendo di avere meno idee, meno energie e meno capacità dei genitori che considera perfetti, si svaluta e si denigra.  Questo genitore può evitare di frequentare i genitori “perfetti” o criticarli eccessivamente oppure sfuggire in generale qualsiasi tipo di confronto per paura di sentirsi inadeguato. Ovviamente, un comportamento di questo tipo lo porta a evitare anche quei confronti costruttivi che lo arricchirebbero o che gli dimostrerebbero che non è poi un genitore tanto malvagio.

“Non vorrei arrabbiarmi con mio figlio e invece lo faccio”

Quante di noi si sono sentite delle pessime madri per essersi arrabbiate molto con il proprio figlio? Proprio noi che non abbiamo mai sopportato le mamme che urlano? In effetti la rabbia verso un figlio è forse una delle emozioni più difficili da gestire e da sopportare per un genitore. Ci si può sentire falliti per il fatto di non saper educare nostro figlio oppure per il fatto di provare una rabbia così intensa verso colui che dovremmo amare di più.  Quando poi alla rabbia si aggiunge la colpa, la situazione si complica: la colpa fa peggiorare l’emozione di rabbia facendoci sentire genitori sbagliati e questo ci rende più facilmente irritabili.

In ognuno di questi pensieri si nasconde la stessa trappola: la trappola della non accettazione. Se non accettiamo di avere queste paure, se non accettiamo di essere prima di tutto esseri umani e quindi genitori che sbagliano, corriamo il rischio di ingigantire i nostri timori e far sì che essi ci condizionino del tutto.

Accettare le emozioni negative

Innanzitutto bisogna dire che è quasi impossibile sentirsi sempre un bravo genitore: tutti i bambini o quasi possono diventare in alcuni momenti delle terribili macchine che sembrano create apposta per esasperare e farci perdere la pazienza o il controllo. Nel momento in cui si diventa genitori, dobbiamo mettere in conto che avremo a che fare con la paura di fallire, con la rabbia, con la colpa oppure con l’invidia. Reprimere queste emozioni e pensieri, cercare di cancellarli oppure tentare di contrastarli non è molto utile: rischiamo di perdere tempo a convincerci che non siamo mamme egoiste o cattive oppure a evitare qualsiasi confronto aumentando il potere di questi pensieri. Vediamola cosi: proprio perché ci teniamo a dare il meglio possibile non è in nostro potere non sentirci ogni tanto cattivi genitori. L’emozione di colpa o la paura di fallire sono essi stessa la prova e la garanzia che vogliamo essere dei buoni genitori. Se non avessimo questo scopo non avremmo queste emozioni che stanno dentro di noi proprio per accertarci che non stiamo facendo troppi errori. L’importante è che queste emozioni non diventino più grandi di noi. Concentriamoci sul genitore che vogliamo essere, chiediamoci “come vorrei comportarmi?” e non “che genitore sono?”, cerchiamo di compiere scelte a favore del nostro benessere e non solo del benessere di nostro figlio (e vedrete che starà bene anche lui) e siamo buoni con noi stessi.  Accettare le nostre emozioni negative non significa rassegnarci a essere come siamo: accettare significa fare del nostro meglio per diventare il genitore straordinario che vogliamo essere, mettendo in conto che non sempre ci riusciremo e continuando a impegnarci su quello che per noi è davvero importante.

10 segreti per una comunicazione efficace

Avete mai pensato che la gran parte dei nostri problemi derivi dal modo in cui comunichiamo?

Quante volte il vostro partner o vostra figlia o un amico ha pronunciato frasi come “non è quello che dici ma come lo dici!” oppure “ci sono modi e modi per dire le cose!” o ancora “non avevo capito che intendessi questo”. “Non si può non comunicare”, diceva Paul Watzlawick e a pensarci bene è proprio così. La comunicazione riveste un ruolo fondamentale nelle relazioni ed è da sempre oggetto di studi e ricerche.  Ma quali sono gli elementi da considerare per una comunicazione efficace? Proviamo a sintetizzarli di seguito.

1) Considera l’altro. Prima di intraprendere qualsiasi comunicazione, soprattutto se state per muovere una critica, domandatevi: come voglio che le altre persone si sentano rispetto a me alla fine della comunicazione? Che effetto avrà sull’altro questo tipo di comunicazione? Come si potrebbe sentire?

2) La prima persona. Esprimete le vostre esigenze o i vostri sentimenti utilizzando messaggi in prima persona. Vi accorgerete che è molto più efficace dire “mi sento deluso” piuttosto che “tu mi deludi o tu sei una delusione”. I messaggi in prima persona evitano il rischio che l’altro si senta giudicato. Sempre in quest’ottica, evitate di dire “tu dovresti” e scegliete “vorrei che tu”.  

3) Predisponete l’altro. Prima di ogni comunicazione che comprenda una richiesta oppure una critica è importante predisporre l’altro a ricevere ciò che stiamo per dire. Sottolineate all’altro i suoi lati positivi prima di fargli notare qualcosa che non va. “Tu fai delle cose molto importanti per me e io le apprezzo molto, sei sempre puntuale e so che su di te posso contare in qualsiasi momento. Ma mi sento triste ogni volta che usi un tono aggressivo”.

4) Descrivete i fatti. Limitatevi a descrivere i fatti evitando nessi causali e supposizioni. Invece di dire “Tu hai detto questo perché vuoi svalutarmi o farmi sentire sbagliata” provate a dire “Quando hai detto questo mi sono sentita svalutata”.

5) Gli altri non leggono nella vostra mente. Chiarite sempre fino in fondo e nei dettagli i vostri punti di vista o le vostre esigenze. Non date per scontato che gli altri sappiano, intuiscano o capiscano ciò che passa nella vostra mente o come vi stiate sentendo. Immaginate di dover parlare o fare una richiesta ad un bambino di sei anni: non cerchereste di essere più chiari possibili e di spiegare tutto? È esattamente questo il criterio da tenere in mente quando parliamo con il nostro partner, con un familiare, con il nostro capo o con un amico.

6) Siate gentili. Non attaccate, non minacciate e non assumente un atteggiamento giudicante e di superiorità. Non servirà a nulla se non a mettere l’altro sulla difensiva spingendolo a non ascoltare oppure ad attaccarvi a sua volta. Utilizzate piuttosto un po’di ironia, mostratevi sorridenti o disposti a sdrammatizzare. Sarà più efficace fare una battuta dicendo “Non sarai stato un po’troppo veloce nel prepararti?” piuttosto che dire “ci metti sempre troppo a prepararti e non sai cosa voglia dire il rispetto”.

7) Fate capire all’altro che lo avete compreso. Quando c’è una discussione su punti di vista divergenti, iniziate le frasi dicendo “capisco cosa tu voglia dire/come tu ti senta ma mi sento ferita quando mi parli in quel modo davanti ai nostri amici” oppure “è comprensibile che tu abbia agito così ma mi sono sentita molto arrabbiata quando hai cambiato programma e la nostra cena è saltata senza preavviso”.

8) Interessatevi e chiedete scusa. Ascoltate con attenzione ciò che l’altro ha da dirvi. Guardatelo, non fate altre cose mentre vi parla, riformulate ciò che vi sta dicendo per verificare di aver capito bene. “Quindi ti senti messo in secondo piano quando non chiedo il tuo parere su questa cosa, mi dispiace”.

9) Siate onesti, leali e sicuri di voi. Non balbettate, non sussurrate e non abbassate lo sguardo. Siate giusti con voi stessi e con l’altra persona. Non vergognatevi di fare una richiesta, non scusatevi di esistere, di avere dei bisogni o delle opinioni. Proponete soluzioni alternative al problema o coinvolgete l’altro nel trovare una soluzione. “Come potremmo fare? Io non riesco a non arrabbiarmi quando non mi avvisi che tarderai”.

10) Contestualizzate. Infine, ricordatevi che dietro ogni messaggio, dietro ogni comunicazione c’è un mondo. Ogni messaggio porta con sé una storia: la persona con cui stiamo interagendo come e perché è arrivata ad essere in quel modo? Che sentimenti prova in quel momento? Che espressioni facciali sta mostrando? Quelle azioni, quei sentimenti, quei pensieri hanno un senso alla luce della sua storia e della sua personalità? Fare caso a tutto questo vi aiuterà ad avere un’interazione efficace, a farvi comprendere e comprendere, a farvi raggiungere il vostro obiettivo senza che voi o l’altro dobbiate pagare un prezzo troppo alto.

 

 

Burnout genitoriale: come intervenire

Proseguendo con il discorso sul burnout genitoriale, se si ha la sensazione che le cose stiano degenerando, la prima cosa da fare è cogliere i segnali d’allarme. Se ci sentiamo stanchi e privi di motivazione nello svolgere o ascoltiamo sempre distrattamente, se ci innervosiamo spesso e rapidamente, se abbiamo la sensazione che tutti i nostri sforzi siano vani e inefficaci, dobbiamo valutare la possibilità di soffrire di burnout. Dal burnout si può uscire ma è necessario prima di tutto diventarne consapevoli e in secondo luogo rompere il tabù. Dobbiamo iniziare ad ammettere a noi stessi e agli altri che qualcosa non va e che la causa di questo qualcosa riguarda proprio i figli e il nostro essere genitori. Spesso quando ci confrontiamo con le altri madri i discorsi riguardano per lo più le abitudini dei nostri figli o il loro modo di essere: raramente capita di sentire madri che parlano tra di loro della loro fatica e difficoltà di essere un genitore. Se lo facessimo scopriremmo di non essere le sole, che alcuni pensieri o sentimenti sono molto più comuni di quello che potevamo immaginare e che una delle risorse più grandi ed utili sono proprio le altre madri. È importante che ci sentiamo libere di chiedere aiuto e di confrontarci con un medico, uno psicologo o più semplicemente con le altre mamme senza il timore di essere giudicate. La gran parte del lavoro riguarda la sfera psicologica e comportamentale: perché siamo arrivati a tanto? Quali sono le caratteristiche di personalità che hanno contribuito a creare questa situazione? Che gestione del tempo abbiamo? Andiamo con ordine.

Gestione del tempo e emozioni positive

Lo stress può anche derivare dalla sensazione di non avere alcun controllo sul tempo e sulle attività che svolgiamo. Ridurre il rischio di burnout vuol dire anche imparare a gestire il tempo in maniera efficace ritagliando momenti da dedicare a noi stesse o al divertimento. Una prima azione che può rivelarsi utile è quella di calcolare i tempi dedicati agli spostamenti per far sì che questi siano adeguati e si riduca la sensazione di andare sempre di corsa. Un’altra strategia è quella di osservare gli impegni della nostra settimana identificando il numero delle esperienze gratificanti e piacevoli. Potremmo accorgerci di non concedere a queste esperienze il giusto spazio oppure renderci conto che dedichiamo loro dei momenti sbagliati. È importante pianificare le attività da svolgere in base alla priorità: le attività più importanti andranno svolte per prime in modo tale da avere tempo per poter svolgere attività piacevoli che funzioneranno come ricompensa. Se per esempio accompagniamo nostro figlio a nuoto, mentre attendiamo che la lezione finisca possiamo leggere un libro, ascoltare la musica che ci piace, intrattenere conversazioni con amici. Quando alla fine della giornata mettiamo a letto nostro figlio proviamo a tollerare i piatti sporchi nel lavandino e sediamoci sul divano a guardare un film o a bere un bicchiere di vino. Inoltre ciò che conta è che non ci sia troppo squilibrio nel rapporto tra le attività necessarie e le attività piacevoli. Le esperienze che innescano emozioni positive arginano l’impatto di quelle che causano emozioni negative e anche se numericamente inferiori devono poter essere vissute. Infine stiamo attente alla capacità di godere appieno di queste esperienze: spesso infatti non riusciamo a trarre da queste esperienze il massimo beneficio perché crediamo di non meritarle o siamo preoccupate che possano finire presto. Se ci troviamo ad una lezione di yoga ma rimuginiamo tutto il tempo su un problema la possibilità di godere della situazione sarà minore. Accantonando i pensieri interferenti e spostando la consapevolezza sulle sensazioni derivanti dalla lezione e sui dettagli di quella specifica esperienza il livello di gratificazione aumenterà notevolmente.

Caratteristiche di personalità

Ritorna il tanto nominato perfezionismo genitoriale! Avere degli standard troppo elevati e inseguire l’idea del genitore perfetto e super efficiente può esporci al rischio di burnout. Valutiamo la possibilità di eliminare le attività a cui i figli tengono meno se per esempio queste ci richiedono un impegno eccessivo o ci portano via tempo che potremmo impiegare in cose più utili e piacevoli. Se nostro figlio va a lezione di pianoforte e di nuoto forse possiamo rimandare la lezione di chitarra a un altro momento di vita: lasciare del tempo libero a noi e lui potrebbe rivelarsi funzionale e sano. Chiediamo ogni tanto ai nonni o agli zii di accompagnare i bambini invece di inseguire il dono dell’ubiquità pur di essere noi a fare tutto. Se mangiamo di tanto in tanto una pizza surgelata e non raggiungiamo l’obiettivo di cucinare sempre piatti espressi potremmo guadagnare del tempo per rilassarci o divertirci con i nostri figli o da soli. Infine un concetto conosciuto e diffuso: il tempo di qualità. Quello che trascorriamo con i nostri figli deve essere un tempo di qualità. E con questo non voglio dire che dobbiamo seguire alla lettera il manuale montessoriano per sviluppare le abilità del bambino. Anzi, tutt’altro. Pur di essere ottimi genitori ci troviamo a svolgere con i nostri figli attività noiose o che detestiamo: io stessa cado spesso in trappola e mi ritrovo ad insegnare a mia figlia le forme o i colori quando preferirei coinvolgerla in esperienze che mi piacciono come il giardinaggio o i lavoretti artistici. Passare con i nostri figli del tempo di qualità vuol dire trovare attività che piacciono ad entrambi: in questo modo non avremo la sensazione di sacrificare tutto il nostro tempo e riusciremo a rigenerarci. Sono certa che qualche gioco educativo in meno e un bel ballo in salotto con la musica ad alto volume non influiranno negativamente sull’intelligenza di nostro figlio!

Genitori, diamoci una mano

Infine un breve accenno all’importanza della solidarietà genitoriale sia tra i genitori dello stesso figlio sia tra i genitori in generale. Fare gioco di squadra nell’educazione di un figlio riduce notevolmente i livelli di stress: se un genitore insiste perché il figlio mangi e l’altro controbatte dicendo: “lascialo stare, non vedi che è stanco?”, può accadere che il primo genitore si senta privato del supporto emotivo e che questo complichi ulteriormente la gestione dei figli. I genitori che fanno squadra riusciranno più facilmente ad essere coerenti nell’arduo compito educativo, diminuiranno la possibilità che il figlio si opponga ai messaggi educativi e aumenteranno il senso di efficacia genitoriale. Inoltre come ho già accennato prima, è importante avere la possibilità di condividere le proprie fragilità con le altre madri: spesso per paura di essere giudicate facciamo fatica a parlare di quanto possa essere difficile fare il genitore. Temiamo di poter apparire madri poco degne se ci lamentiamo di fronte a tutti dello stress e delle difficoltà emotive che si incontrano crescendo un figlio. Io vi posso dire che la condivisione può diventare un prezioso strumento di cura e di consapevolezza. Smettiamo di nasconderci dietro la facciata della mamma e della donna che ha tutto sotto controllo e proviamo a condividere i nostri vissuti di solitudine, paura o frustrazione: scopriremo di non essere affatto sole, di non essere affatto strane, di non essere affatto anormali. 

Valutiamo la possibilità di un percorso psicoterapeutico

Ultimo ma non ultimo, un percorso psicologico potrebbe aiutarci a modificare alcuni aspetti della nostra personalità e quotidianità che aumentano il rischio di burnout. Il rilassamento muscolare progressivo, la tecnica delle immagini piacevoli o la respirazione diaframmatica sono solo alcune tecniche che possono essere apprese durante un percorso di psicoterapia e che possono rivelarsi molto utili nella gestione efficace dello stress.

 

Essere buoni con se stessi: la compassione al posto di autocritica, colpa e vergogna

Vi siete mai soffermati a riflettere su come sia molto più facile essere buoni con gli altri piuttosto che con se stessi?  Quando un caro amico o vostro figlio vi chiede consiglio riguardo a qualcosa che lo fa stare male, non vi capita di mostrarvi più indulgenti o più tolleranti? Ricerche piuttosto recenti in ambito neuroscientifico hanno voluto indagare il ruolo della compassione verso se stessi nella regolazione delle emozioni e nell’aumento dei livelli di benessere psicofisico.

I dati hanno dimostrato come la compassione verso se stessi correli con minori livelli di ansia e depressione e attivi nell’individuo processi affiliativi e auto-lenitivi. Sebbene non ci sia un accordo unanime sulla definizione di compassione, in linea con Neff (una pioniera degli studi sull’auto-compassione) possiamo definirla come la capacità non giudicante di mostrarsi comprensivi e gentili verso noi stessi e verso le nostre debolezze o difficoltà. Invece di giudicarci e criticarci senza pietà per ogni inadeguatezza, carenza, o fallimento attraverso l’auto-compassione impariamo ad essere gentili e comprensivi. Gilbert, fondatore della Compassion Focused Therapy, ha descritto tre sistemi implicati nella regolazione delle emozioni: il sistema di protezione dalla minaccia, che ci difende dai pericoli; il sistema del desiderio-eccitamento, che è responsabile delle emozioni positive e ci spinge ad raggiungere ciò che ci piace; il sistema della sicurezza e dell’appagamento, che si manifesta con comportamenti di accudimento, validazione ed empatia. Quando impariamo ad essere compassionevoli verso noi stessi e ad accettare che gli altri lo siano con noi, quest’ultimo sistema viene attivato e vengono prodotti maggiori livelli di endorfine ed ossitocina, responsabili della sensazione di calma, sicurezza e tranquillità. Avere compassione verso noi stessi vuol dire imparare a non giudicare le nostre emozioni come sbagliate o inappropriate, utilizzare calore e affetto quando ragioniamo con noi stessi, accettare che gli altri possano essere compassionevoli con noi e imparare a perdonarsi: come dice spesso Gilbert, molto di quello che accade nelle nostre menti non è frutto di un nostro progetto e, perciò, non è colpa nostra.

Non si tratta di fare del buonismo, ma di distinguere quello che non è causato da noi da quello di cui siamo responsabili: possiamo non avere la colpa per come è la nostra mente, per la paura e gli accessi d’ira che si agitano in essa, ma solo noi possiamo gestirla e addestrarla affinché ci garantisca la nostra e l’altrui felicità. La capacità di essere compassionevoli verso se stessi si rivela molto utile in quelle persone tendenzialmente soggette all’autocritica e alla vergogna, due emozioni molto intense ed inutili che spesso portano a comportamenti distruttivi e difensivi.

Il primo passo è individuare l’origine di queste due emozioni: l’autocritica e la vergogna sono rappresentate spesso dalla voce di un genitore o di un insegnante che ha insegnato al bambino ad aver paura dei propri errori e a non sbagliare, pena il non essere amato. La vergogna è legata al bisogno di inclusione sociale, alla preoccupazione per la valutazione, per ciò che gli altri pensano di noi. L’autocritica può essere familiare per coloro che si fissano standard personali elevatissimi e poi cercano a tutti i costi di raggiungerli. Imparare ad essere compassionevoli non è facile, in proposito esistono dei training di terapia che utilizzano una serie di tecniche come l’immaginazione, la tecnica della sedia compassionevole oppure l’esercizio di scrivere una lettera compassionevoli a se stessi.

Tuttavia, molti di noi potrebbero incontrare diversi problemi in questo allenamento all’auto-compassione: potrebbero sentirsi ridicoli, provare emozioni spiacevoli come vergogna o paura, potrebbero non riuscire a provare compassione. La compassione, verso se stessi e ricevuta dagli altri è un’emozione positiva connessa alle relazioni sociali, alla capacità di ricevere accudimento e alle sensazioni di appagamento e condivisione. Per alcuni le emozioni positive sono pericolose poiché hanno a che fare con la sensazione di abbassare la guardia, di sentirsi fuori controllo o sopraffatto dagli altri; la compassione spesso viene fraintesa con l’auto-indulgenza e con l’essere deboli e quindi come qualcosa da evitare. Queste difficoltà possono essere legate a storie familiari di abusi, traumi, abbandoni e carenze affettive durante l’infanzia che hanno generato la paura delle emozioni positive. Ma la scienza parla chiaro, la nostra specie si è evoluta e funziona meglio in condizioni di sicurezza, supporto, senso di connessione e gentilezza reciproca. Imparare ad essere compassionevoli verso se stessi e a ricevere compassione ci permette infine di capire alcune cose: 

  1. Il mondo è un posto sicuro: gli altri non ci attaccheranno o ci rifiuteranno perché provano stima per noi
  2. La compassione ci permette di creare interazioni significative che garantiscano condivisione e supporto sociale
  3. Ricevere dagli altri apprezzamento e interesse ha un effetto diretto sul nostro assetto fisiologico e sul nostro sistema calmante
  4. La compassione ci rende saggi e coraggiosi

Sviluppare il sé compassionevole richiede coraggio per poter affrontare il viaggio verso le nostre emozioni, e verso le nostre sofferenze. Ci vuole coraggio per accettare un fallimento senza annegare nel mare inutile dell’auto-denigrazione e ci vuole coraggio per accettare le nostre imperfezioni. Ma in fondo, chi ha mai detto che dovremmo essere perfetti?

 

Il burnout genitoriale: è possibile stancarsi dei propri figli?

Stavolta prendo spunto da un interessantissimo articolo pubblicato su Mind, una rivista scientifica del gruppo Repubblica. Le autrici, due psicologhe ricercatrici all’Università di Lovanio in Belgio, hanno studiato il fenomeno del burnout genitoriale su un campione di 3000 genitori. Cosa si intende per burnout? Il concetto di burnout (letteralmente “bruciarsi”) è emerso per la prima volta alla fine degli anni ’60 per identificare un forte disagio psicofisico connesso al lavoro per tutte quelle figure professionali che hanno a che fare con la gestione quotidiana dei problemi altrui (infermieri, vigili del fuoco, figure di assistenza, insegnanti, medici, psicologi). Il burnout si caratterizza per un progressivo logoramento fisico ed emotivo dovuta ad una non efficace gestione dello stress lavorativo.

Il concetto di burnout genitoriale emerge per la prima volta agli inizi degli anni ’80 in riferimento ai genitori con figli affetti da malattie croniche. In questo studio iniziato nel 2011 le ricercatrici hanno sostenuto che tale fenomeno possa colpire non solo i genitori di bambini con malattie croniche ma anche tutti i genitori che accumulano vari fattori di rischio in un dato momento di vita: come ad esempio la malattia di un figlio e una separazione. Prima di proseguire voglio fare una doverosa ed importante precisazione: il burnout genitoriale non ha nulla a che vedere con il baby blues o la depressione post partum. Il primo è un fenomeno biologico legato all’oscillazione ormonale nei giorni successivi al parto, la seconda è una condizione che insorge nel primo anno di vita del bambino e che è caratterizzata da un umore costantemente depresso e dalla perdita di entusiasmo in tutti gli aspetti della vita. Il burnout genitoriale invece, può colpire il genitore in qualsiasi momento di vita a prescindere dall’età dei figli che quindi potrebbero essere anche adolescenti o adulti. Inoltre, proprio come in quello lavorativo, è un fenomeno che rimane confinato alla sfera familiare senza intaccare le altre. Potremmo essere soddisfatti e motivati nella sfera delle relazioni e del lavoro e soffrire di burnout nel momento in cui ricopriamo il ruolo di genitori.

Secondo le due autrici ci sono tre sintomi principali: il primo è un progressivo senso di esaurimento: ci si sente esausti, privi di energie e stremati. Il secondo è il distacco affettivo: non si hanno più energie per investire nel rapporto con nostro figlio, si dedica sempre meno attenzione al suo vissuto emotivo e si dà una minore importanza ai suoi bisogni. Infine c’è la perdita di efficacia come genitore: ci si rende conto di non essere più il genitore che volevamo essere e si perde fiducia nelle proprie capacità. La causa che induce una condizione di questo tipo è da ricercarsi nell’ormai famoso e diffuso concetto di stress. Essere genitori come abbiamo già detto, è spesso motivo gioia ma è anche motivo di stress: ognuno di noi si trova ad affrontare una serie di sfide più o meno importanti, prima fra tutte la riorganizzazione della vita intorno a quella del bambino che comporta spesso la rinuncia ad alcune attività che prima erano fonte di piacere. A questo si aggiunge l’occuparsi in simultanea dei figli, della casa e delle difficoltà di tutti i giorni. Infine diventare genitori richiede a mio parere un’eccellente capacità del gestione del tempo: soprattutto se facciamo parte di quei genitori che non vogliono rinunciare ad un’uscita con gli amici, ad un tempo di qualità trascorso con i propri figli, ad un po’ di tempo per sé stessi, ad un minimo di realizzazione professionale o a uno straccio di vita di coppia. La sensazione che il tempo scorra troppo velocemente e che non si riesca a sfruttarlo nel modo giusto può aumentare notevolmente i livelli di stress. Tra i principali fattori di rischio che ci espongono alla possibilità del burnout genitoriale, non possiamo non citare il perfezionismo. Noi genitori spesso incorriamo nel rischio di voler essere perfetti e non appena questo scopo viene compromesso, colpa e invidia diventano le nostre migliori amiche. Ci sentiamo in colpa per aver desiderato di sedere sul divano a guardare un programma pur non avendo visto nostro figlio per tutto il giorno; o per non aver condiviso l’entusiasmo del nostro bambino al rientro da una giornata di lavoro intensa; o per esserci innervosite per un nonnulla. Proviamo invidia verso i genitori e le famiglie degli altri, quelle sembrano sempre più perfette delle nostre. “Dov’è finito il genitore che volevo essere?” “Gli altri genitori se la cavano alla grande, sono io che sono un disastro” “Com’è possibile che io non voglia stare con i miei figli proprio quando hanno bisogno di me e non li vedo da 10 ore?”. Valutazioni di questo tipo non fanno che aumentare il senso di colpa e di inefficacia personale esponendoci al rischio di burnout. Inoltre, una condizione di burnout che si protragga per lungo tempo potrebbe avere effetti sulla nostra salute fisica portando ad un indebolimento delle difese immunitarie, all’aumento della pressione arteriosa e del rischio di malattie cardiovascolari, a problemi digestivi o a possibili contratture muscolari. È importante allora essere attenti ai segnali di allarme e ai sintomi di cui abbiamo appena parlato per valutare la possibilità di soffrire di burnout genitoriale e poter intervenire. Ma come intervenire? Ne parliamo QUI.

 

Benvenuta invidia

Eccomi qui ad affrontare un argomento di cui si parla poco: l’invidia. L’invidia è da sempre oggetto di studi e ricerche non solo in ambito psicologico ma anche in quello artistico e letterario. In un’ottica cognitivista l’invidia nasce dal confronto tra il proprio potere e quello di un altro rispetto ad un dato scopo o bene. Se la riferiamo a noi mamme (ma anche ai papà!), l’invidia può riguardare le doti fisiche, intellettuali o sociali di altri bambini rispetto ai nostri. Magari proprio un amichetto di nostro figlio o il figlio di una nostra carissima amica. Come dice la bravissima Claudia Perdighe nel suo libro Il linguaggio del cuore, l’invidia è spesso un’emozione che le persone tendono a nascondere e che non vogliono provare.

La mamma o la persona che prova invidia il più delle volte non vorrebbe provare quell’emozione, è a disagio per il fatto di provarla ed è anche per questo che l’invidia è una delle emozioni meno raccontate e riferite. In generale le persone tendono a vergognarsi dell’invidia perché partono da credenze come “è brutto essere invidiosi”, “se invidio gli altri sono una brutta persona” oppure “se invidio gli altri significa che sono migliori di me”. Se siamo genitori la cosa si complica ulteriormente perché l’invidia non è tra noi ed un’altra persona ma tra nostro figlio e un altro. Provare invidia in questo caso è molto doloroso per varie ragioni: innanzitutto perché prendiamo atto di qualcosa che nostro figlio non ha o non possiede, in secondo luogo perché ci sentiamo “cattive” nel provare invidia verso il figlio di qualcun altro, in terzo luogo perché ci possiamo sentire mamme orribili pensando di non amare abbastanza nostro figlio o che nostro figlio non ci piaccia. La cosa che forse fa più male è proprio l’idea di ritenere nostro figlio inferiore ad un altro bambino. Se poi ci ritroviamo a sperare che quel bambino sbagli la gara o prenda un brutto voto ad un compito allora l’invidia potrebbe farci sentire persone indegne e provocare un forte disagio.

La prima cosa da dire è che se sono qui a parlarne, evidentemente, per quanto poco raccontata essa sia, l’invidia è un’emozione frequente e normale. Anche i genitori più amorevoli ogni tanto finiscono col provarla. Chi di noi non è felice se il proprio figlio eccelle o è molto bravo in uno sport, a scuola o in un’altra disciplina? Volere il meglio per nostro figlio è normale e può capitare di sentirsi dispiaciuti e provare invidia se ad eccellere è un altro bambino. Un altro aspetto dell’invidia è la competizione: la competizione è un tratto caratteriale e temperamentale. Si nasce competitivi, non ci si diventa. Ci sono adulti che fin da bambini giocavano per vincere e non solo per partecipare. In genere questa tipologia di persone tende a provare sentimenti d’invidia più facilmente e se il proprio figlio non ha una natura competitiva e non sente il desiderio di eccellere, potrebbero innescarsi delle dinamiche dolorose. Potrebbe capitare che i genitori, mamme o papà che siano, esercitino involontariamente delle pressioni sul proprio figlio, nella speranza che tiri fuori un po’di grinta e tenti di essere il migliore. Infine non possiamo ignorare il fatto che spesso l’invidia è un aspetto importante della cultura a cui apparteniamo. Esistono le cosiddette “culture dell’invidia” dove l’invidia è appunto un tratto culturale trasmesso di generazione in generazione ed esistono i tanto diffusi social network che volenti o nolenti fanno dell’invidia un loro fondamento. Nati con l’idea di condividere, sono diventati ormai uno sfoggio di tutti i momenti e i particolari delle nostre vite. Addirittura sembra che in alcuni casi, una vacanza o una giornata particolare acquisti valore ed importanza solo se si ha la possibilità di condividerla e mostrarla al popolo dei social. Così ad esempio la giornata al Bioparco che trascorriamo con la nostra famiglia acquista senso perché viene condivisa su Facebook e non più per il fatto di stare con le persone che amiamo.

Cosi come per la rabbia e la colpa se l’emozione di invidia ci fa visita ogni tanto, va semplicemente accettata evitando di sentirsi madri indegne e giudicarsi cattive persone. Se invece è un sentimento che proviamo spesso allora potremmo fermarci un attimo per capire cosa vorremmo di diverso, cosa ci manca e se per caso dentro di noi ci sia uno stato di insoddisfazione generale che alimenta l’invidia. Confrontarsi con gli altri e con i figli degli altri spesso non è utile e diventa fonte di sofferenza: il rischio più grande che corriamo è quello di stabilire la nostra felicità in base a quello che hanno in più o in meno le persone che ci circondano. Siamo felici se osserviamo che abbiamo tutto quello che hanno gli altri e infelici se abbiamo qualcosa in meno. Forse potremmo fermarci per riflettere e capire se l’invidia sta cercando di dirci qualcosa: quanto e cosa siamo riusciti a realizzare di quello che avremmo voluto?