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Le terapie online sono ugualmente efficaci?

La pandemia, e in particolare i periodi di lockdown, hanno reso necessario il ricorso a sedute di psicoterapia online, per lo più videocall ma anche per telefono.  I terapeuti e i loro pazienti si sono trovati praticamente da un giorno a un altro a modificare il setting delle sedute, passando dal consueto ambiente dello studio, dove era possibile vedersi da vicino e avere a disposizione tutti gli strumenti della comunicazione non verbale, a incontri attraverso lo schermo di un PC o di un cellulare, con i pazienti talvolta obbligati, per avere un po’ di privacy dai familiari ugualmente reclusi a casa, a rifugiarsi in spazi “anomali” come il bagno o addirittura l’automobile.

Dal primo periodo emergenziale (primavera 2020), la terapia online ha poi continuato in molti casi a permanere e dunque a evolversi, attirando così l’attenzione dei ricercatori che hanno cominciato a studiarne le dinamiche per verificarne l’efficacia e le opportunità, senza trascurarne i lati meno positivi.

Un articolo scritto da Francesca Davini e Marco Saettoni, psicoterapeuti che lavorano nell’area di Grosseto, fa il punto sull’impatto che questo grande cambiamento operativo ha avuto sui professionisti del settore e i loro assistiti, sulla base di dati da loro raccolti e di tre studi, due italiani e uno relativo ai paesi di lingua tedesca (Boldrini et al., 2020; Femia et al., 2020 e Christiane Eichenberg 2021).

A una prima analisi i problemi più evidenti connessi alle terapie online riguardano aspetti cruciali quali le modalità di acquisizione del consenso informato, il rispetto della privacy, le modalità di pagamento, la strutturazione del nuovo setting. Ad esempio, è giusto far pagare la stessa cifra per una seduta online o dal vivo? «Si potrebbe pensare che il terapeuta debba sostenere costi vivi minori con le terapie online (ad esempio spostamenti da e per il proprio studio) e ciò giustificherebbe una sorta di sconto sulla prestazione per il paziente, ma al tempo stesso questo potrebbe essere visto come squalificante il setting online», si interrogano gli autori.

Tuttavia balzano agli occhi anche elementi sicuramente da guardare con favore, come il maggiore accesso alla psicoterapia, la disponibilità e la flessibilità del servizio (ad esempio con pazienti lontani geograficamente e in situazioni di emergenza) e forse, almeno in prospettiva, la convenienza economica.

La presenza terapeutica

Il concetto di presenza terapeutica (che i due autori riprendono da Geller) rimane comunque centrale: è necessario alla creazione di sicurezza e all’efficacia del trattamento. «La presenza terapeutica è la capacità di essere fisicamente, emotivamente, cognitivamente, relazionalmente e spiritualmente in seduta col paziente», precisano i due autori. E dunque in che modo può essere mantenuta in una seduta online? Sarà fondamentale per il terapeuta seguire alcune indicazioni intese a creare un ambiente adeguato e sicuro per il paziente, come: allestire uno spazio dedicato costante che dia ai pazienti un senso di continuità e sicurezza, collocarsi a una giusta distanza dallo schermo e mantenere un abbigliamento professionale come in presenza; avere cura che anche il paziente sia in un ambiento privo di distrazioni e in piena privacy; mantenere il contatto con il proprio corpo, i propri gesti e la propria voce.

E i terapeuti, come hanno vissuto le sedute online?

Pur nelle differenze dovute all’orientamento dei terapeuti (i dati riferiti provengono da sondaggi effettuati presso terapeuti di orientamento psicodinamico, cognitivo-comportamentale, sistemico, umanistico e integrato), un elemento emerge con chiarezza: «gli psicoterapeuti che hanno riferito di aver usato frequentemente la psicoterapia online prima della quarantena avevano provato una soddisfazione significativamente maggiore rispetto a quelli che non l’avevano mai usata» e hanno riportato un minor tasso di interruzione del trattamento nei loro pazienti. Lo studio tedesco aggiunge che dopo la pandemia l’atteggiamento dei terapeuti verso le sedute online è mutato in positivo, passando da circa un terzo di pareri favorevoli a due terzi.

A questo quadro si aggiungono i numeri e le osservazioni raccolte dagli stessi Davini e Saettoni su un campione di 118 terapeuti, che vanno nella direzione degli studi precedentemente citati: nonostante alcune criticità, dovute soprattutto all’esperienza con gli strumenti telematici, la maggioranza dei terapeuti riporta un parere positivo rispetto alla nuova modalità di trattamento, riferendo di una percezione di efficacia nella conduzione delle sedute online simile a quelle in presenza.

Conclusioni provvisorie

Insomma, suggeriscono i due autori, al momento il dibattito sulle terapie online può attestarsi su un primo punto: la loro efficacia sembra essere la stessa di quelle in presenza, nonostante qualche iniziale perplessità e difficolta. Tuttavia per il futuro sarà essenziale stabilire linee guida specifiche sulle modalità di utilizzo della rete e dedicare spazio all’istruzione e alla supervisione relativamente alla conduzione delle sedute online, soprattutto per salvaguardare la costruzione e il consolidamento della – fondamentale – relazione terapeutica.

Ph: Foto di Thirdman da Pexels.

Francesca Davini, Marco Saettoni SARS COVID-19, quarantena e psicoterapie online,  sulla rivista «Psicobiettivo» 3/2021 LINK

 

 

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Photo by Maggie Markel on Unsplash

Cos’hanno in comune le famiglie serene?

Agli psicologi piace studiare tutto! Spesso studiano cosa va storto, ma a volte studiano cosa va bene. Cosa mostrano le ultime ricerche sulle famiglie i cui membri sanno stare bene insieme? Hanno identificato alcune caratteristiche che potrebbero essere utili per rafforzare i tuoi rapporti familiari, soprattutto se ti trovi a vivere a stretto contatto con i tuoi familiari a causa della pandemia.

Una comunicazione aperta e chiara. Una comunicazione aperta e chiara significa che sei onesto e vulnerabile con i membri della tua famiglia, non nascondi le tue emozioni o li induci in errore, o fai accenni o sei indiretto. Aprire significa essere autentici e reali. Questo non significa che dici solo quello che hai in mente. Puoi anche sceglier cosa dire. Una comunicazione onesta significa che esprimi ciò che è vero, NON ciò che pensi nei momenti di rabbia o turbamento. Puoi essere onesto e comunque censurare pensieri e parole inutili.

Incoraggiare i singoli membri. Ciò significa che i singoli membri sono supportati, rispettati e riconosciuti. Le famiglie forti coltivano un senso di appartenenza a una famiglia, ma coltivano anche i punti di forza e gli interessi individuali. Il quadro familiare fornisce la struttura ma non limita i membri della famiglia.

Impegno per la famiglia. Ogni membro della famiglia è apprezzato; ciascuno è supportato e sostenuto. Allo stesso tempo, ogni membro è impegnato nella famiglia come un tutt’uno, con la sensazione di essere una squadra. C’è un senso di identità e unità familiare. Ciò significa anche che le famiglie trascorrono del tempo insieme. Il tempo condiviso è molto ed è un tempo di qualità.

Apprezzamento. Apprezzamento significa che i membri della famiglia forniscono un alto livello di rinforzo positivo ai membri della famiglia, giorno dopo giorno, facendo cose che sono positive dal punto di vista dell’altra persona, solo per il loro bene. I membri della famiglia provano gioia, simpatia, calore e umorismo.

Capacità di adattamento e flessibilità. Le famiglie sane possono cambiare, possono adattarsi secondo le necessità per far fronte allo stress e ai cambiamenti prevedibili e imprevedibili del ciclo di vita.

Connessione sociale. Questa caratteristica è legata alla capacità della famiglia di adattarsi e far fronte alle crisi e ai problemi quotidiani. Le famiglie serene non sono isolate: sono collegate alla società intorno a loro.

Chiara definizione del ruolo. Con una struttura chiara ma flessibile, i membri della famiglia sono consapevoli delle proprie responsabilità all’interno e verso la famiglia. Quindi, quando ci sono problemi, i membri conoscono i loro ruoli.

Karyn Hall su borderlinepersonalitydisorder.org  14 maggio 2021

 

 

Mindful-family: come la mindfulness può aiutare non solo le persone con un disturbo psicologico ma anche le loro famiglie

I familiari di persone che soffrono di un disturbo mentale o di una malattia fisica cronica possono raggiungere livelli di stress molto elevati che interferiscono con un buon adattamento nella vita quotidiana: alcuni approcci psicologici sono in grado di affrontare questi fattori sistemici e possono dunque essere molto utili.

Gli interventi basati sulla mindfulness (MBI) si sono rivelati efficaci nell’aiutare le persone che vivono in situazioni croniche di disagio; tuttavia, la maggior parte di questi interventi è stata fino a oggi diretta principalmente ai soli pazienti affetti dal disturbo.  C’è ormai una vasta ricerca che mostra come la mindfulness individuale migliori il funzionamento relazionale, la mindfulness con i genitori (mindful-parenting) migliori lo stato di salute dei figli e la mindfulness nelle relazioni influenzi positivamente la salute e il benessere di entrambi i partner. Possiamo dunque ritenere che gli MBI diretti verso il sistema familiare e non solo verso il singolo individuo, meritino un posto di primo piano nell’assistenza sanitaria. Vediamo insieme perché.

Come spiegano Susan Maria Bögels (Università di Amsterdam) and Lisa-Marie Emerson  (Griffith University, Australia) in una articolo apparso su Sciencedirect, la natura delle malattie somatiche, mentali e croniche è di per sé sistemica. Se ad esempio una donna soffre di depressione, ciò può essere causato da fattori sistemici come la sua educazione e il rapporto attuale con la sua famiglia di origine, la relazione con il suo (ex) partner, con i figli e così via. Anche il sistema sarà influenzato a sua volta e influenzerà il corso della depressione della donna: l’impatto della malattia può estendersi ai suoi rapporti con i suoi figli, il suo (ex) partner e i suoi genitori. Lo stesso processo vale per le malattie fisiche: la malattia di un bambino può essere stata causata da elementi dell’ambiente familiare, quali il cibo e lo stile di vita.

Perciò, dato che attualmente la maggior parte degli interventi basati sulla mindfulness è diretta nei confronti di colui che ha il disturbo, gli MBI indirizzati verso il sistema (ad es. figli, fratelli, genitori) e non solo verso l’individuo, possono venire incontro a un bisogno insoddisfatto. Hanno il potenziale per alleviare la sofferenza di tutta la famiglia, aumentando l’impatto e l’efficacia delle cure nella persona che soffre di una determinata malattia. La mindfulness infatti non solo influenza il modo in cui ci relazioniamo con noi stessi, ma anche il modo in cui ci relazioniamo agli altri: “mindfulness relazionale”, appunto. Praticare un’attenzione centrata sul momento presente e non giudicante, verso se stessi e gli altri, può portare profondi cambiamenti nelle relazioni. Pertanto gli MBI possono essere efficaci per difficoltà relazionali quali quelle coniugali o genitoriali.

La mindfulness individuale si occupa della soddisfazione nella relazione e della capacità di far fronte allo stress che la relazione comporta: nelle relazioni sentimentali, gli studi trasversali e di intervento concordano sul fatto che un alto livello di mindfulness individuale sia associato a una maggiore soddisfazione nella relazione; la mindfulness potrebbe quindi avere un ruolo chiave nel modo in cui gli individui reagiscono al conflitto all’interno di una relazione, compreso un maggiore controllo sulle manifestazioni più impulsive della rabbia. Ad esempio nel momento del conflitto, un livello maggiore di mindfulness è associato a un più veloce ristabilimento del cortisolo di fronte ad un comportamento negativo del partner.

È probabile che queste evidenze non riguardino solo le relazioni sentimentali ma anche la mindfulness genitoriale. C’è un ampio gruppo di studi recenti e trasversali che pone in evidenza come il mindful-parenting sia associato a un più basso tasso di psicopatologie nei figli – depressione, ansia, rischio di assumere sostanze stupefacenti e o comportamenti sessuali a rischio. È associato anche ad un miglior controllo glicemico negli adolescenti con diabete.

In considerazione di tutti questi dati e in un’ottica di cura e prevenzione possiamo dire che la mindfulness genitoriale o comunque per i familiari delle persone che soffrono di un disagio psichico o fisico e per i problemi relazionali all’interno delle famiglie merita davvero un’attenzione particolare nel panorama scientifico.

La scienza conferma l’importanza del nervo vago nel benessere fisico e mentale

Il suo nome in latino significa “vagabondo” e secondo le ultime ricerche scientifiche, sembra avere un ruolo centrale nel benessere fisico e psicologico: è il nervo vago. Ma di che si tratta? Quando ad esempio facciamo un respiro profondo, abbracciamo un amico o allunghiamo un po’ i muscoli, sentiamo un senso di calma e comfort. Questi movimenti attivano un complicato sistema nervoso che collega il cervello al cuore, all’intestino, al sistema immunitario e a molti altri organi. Questo sistema è noto appunto come “nervo vago”.

Il nervo vago è uno dei dodici nervi cranici che si estendono dal cervello nel corpo come un’intricata rete di radici. Queste reti nervose agiscono come linee di comunicazione tra il cervello e i numerosi sistemi e organi del corpo. Alcuni nervi cranici si occupano delle informazioni sensoriali che arrivano dalla pelle, dagli occhi o dalla lingua. Altri controllano i muscoli o comunicano con le ghiandole.

Il nervo vago, detto anche “decimo nervo cranico”, è il più lungo, il più grande e il più complesso dei nervi cranici e, per certi versi, è anche il meno compreso. Gli esperti hanno collegato la sua attività a malattie come l’emicrania, le infiammazioni intestinali, la depressione, l’epilessia, l’artrite e molti altri disturbi comuni. Più la scienza impara a conoscere questo nervo, più sembra che una migliore comprensione della sua funzione possa aprire nuove porte al trattamento di molti disturbi fisici e mentali.

Tiffany Field, direttrice del Touch Research Institute presso la University of Miami School of Medicine, spiega che le diramazioni del nervo vago sono collegate al viso e alla voce: «Sappiamo che le persone depresse hanno una bassa attività vagale, e ciò è associato a una minore intonazione e ad espressioni facciali meno attive», aggiunge. Una diramazione del nervo vago ad esempio scende nel tratto gastrointestinale: qui, una bassa attività vagale è associata a motilità gastrica rallentata, che interferisce con una corretta digestione.

Altre diramazioni del nervo vago sono collegate al cuore, ai polmoni e al sistema immunitario. L’attivazione o la disattivazione del nervo vago può dipendere da ormoni come il cortisolo (che regola lo stress) e la grelina (che regola l’appetito), dall’infiammazione prodotta dal sistema immunitario e da molti altri processi. «C’è un’enorme serie di eventi bioelettrici e biochimici di cui è responsabile il nervo vago, quasi impossibili da mappare», afferma la dottoressa Field.

Insomma, anche se non tutto è ancora chiaro, sembra evidente che il nervo vago abbia la funzione di governare il sistema nervoso parasimpatico, che aiuta a controllare le risposte di rilassamento del corpo. In parole povere, un’intensa attività vagale contrasta la risposta di stress dettata dal sistema nervoso simpatico. «Il sistema nervoso simpatico è regolato su due azioni: “lotta o scappa”,  il sistema nervoso parasimpatico invece è più rilassato», chiarisce Stephen Silberstein, professore di neurologia e direttore dell’Headache Center presso l’ospedale Thomas Jefferson di Philadelphia. Secondo Silberstein un’attività vagale intensificata rallenta la frequenza cardiaca e spegne l’infiammazione, innescando il rilascio di sostanze chimiche che calmano il sistema immunitario. Anche attivando il nervo vago attraverso la stimolazione elettronica si può avere una serie di benefici per la salute. «A seconda della frequenza della stimolazione, sappiamo che si può fermare un attacco d’asma o un attacco epilettico», spiega Silberstein. «Possiamo spegnere l’emicrania o la cefalea a grappolo e possiamo diminuire la percezione del reflusso acido».

Fino a non molto tempo fa questa stimolazione richiedeva un impianto chirurgico nel torace che trasmetteva impulsi elettrici direttamente nel nervo vago. Ma alcuni dispositivi più recenti e non invasivi sono in grado di stimolare il nervo vago quando vengono premuti sul collo. Silberstein spiega che i medici stanno esplorando l’uso della stimolazione del nervo vago per una vasta gamma di malattie e disturbi, comprese quelli mentali. Insomma, praticamente in tutte le condizioni mediche comuni che sono peggiorate dallo stress o dall’infiammazione, come l’artrite o la sindrome dell’intestino irritabile, le ricerche dimostrano che la stimolazione del nervo vago può aiutare a curarle o alleviarne i sintomi.

«Stiamo imparando sempre di più quanto sia critica l’attività vagale per l’attenzione e l’umore», afferma la dottoressa Field. Esistono già prove che la stimolazione del nervo vago possa migliorare la memoria di lavoro o aiutare le persone con disturbo da deficit di attenzione e iperattività. E già all’inizio degli anni Duemila, la FDA (l’agenzia americana che approva i trattamenti farmacologici) ha detto sì alla stimolazione del nervo vago per il trattamento di alcune forme di depressione.

Quello che gli studi mettono inoltre in luce è che si può stimolare il nervo vago anche con il massaggio e lo yoga, perché entrambi agiscono sui recettori di pressione sotto la superficie della pelle, su quelli situati in tutto il corpo e su quelli che si possono raggiungere solo con una pressione decisa o un allungamento profondo. «Alcuni studi dimostrano che i pazienti con emicrania hanno ridotta attività vagale», dice il dottor Silberstein. «Abbiamo cercato di risolvere il problema facendo yoga o meditazione con respirazione profonda, e abbiamo scoperto che molte di queste cose ci hanno permesso di attivare il nervo vagale». Insomma quasi tutto ciò che le persone trovano rilassante – meditazione, respirazione profonda – è associato a un’intensa attività vagale e del sistema nervoso parasimpatico. Un tocco leggero o una carezza sono eccitanti, mentre un abbraccio o una potente stretta di mano sono rilassanti: ma tutti attivano il nervo vago e l’attività parasimpatica.

C’è ancora molto sul nervo vago che la scienza non sa, ma man mano che i medici scopriranno nuove informazioni si potranno sperimentare modi più efficaci per alleviare il dolore del corpo e della mente.

Fonte: Elemental, 12/2019

 

Se vuoi essere creduto rispondi velocemente

Quando le persone fanno una pausa prima di rispondere a una domanda, anche solo per pochi secondi, le loro risposte sono percepite come meno sincere e credibili che se avessero risposto immediatamente, secondo una ricerca pubblicata dall’American Psychological Association. E più lunga è l’esitazione, meno sincera appare la risposta.

«Valutare la sincerità delle altre persone è una parte fondamentale delle interazioni sociali», dice l’autore principale dello studio Ignazio Ziano, dell’Ecole de Management di Grenoble. «La nostra ricerca mostra che la velocità di risposta è un segnale importante su cui le persone basano il giudizio sulla sincerità degli altri».

I ricercatori del team di Ziano hanno condotto una serie di 14 esperimenti che hanno coinvolto più di 7.500 individui di Stati Uniti, Regno Unito e Francia. I partecipanti ascoltavano degli audio o guardavano il video di una persona che rispondeva a una semplice domanda (se, ad esempio, gli piaceva la torta fatta da un amico o se avevano rubato soldi sul lavoro). In ogni scenario, il tempo di risposta variava da immediato a un ritardo di 10 secondi. I partecipanti valutavano quindi la sincerità della risposta su di una scala di giudizio.

In tutti gli esperimenti i partecipanti hanno sistematicamente valutato le risposte ritardate come meno sincere, indipendentemente dalla domanda, sia quelle più innocue – ad esempio sulla bontà della torta – sia quelle più serie, come sull’aver commesso o meno un crimine.

In alcune condizioni, i ricercatori hanno scoperto che l’effetto si riduce. Ad esempio, se la risposta è considerata socialmente indesiderabile, come dire “no, non mi piace” quando un amico chiede se ti piace la sua torta, la velocità di risposta non sembra avere molta importanza; la risposta è considerata sincera sia che sia veloce che lenta. Inoltre gli studiosi hanno osservato che se i partecipanti pensavano che una risposta più lenta fosse dovuta a uno sforzo mentale (ad esempio, dover ricordare si era rubato delle caramelle 10 anni prima), anche in questo caso la velocità di risposta aveva un effetto minore.

Questi risultati hanno molte implicazioni, secondo Ziano: «Ogni volta che le persone interagiscono, giudicano reciprocamente la loro sincerità. I risultati del nostro esperimento possono essere applicati a una vasta gamma di interazioni, dalle chiacchiere sul posto di lavoro ai battibecchi fra coppie e fra amici. Inoltre, nei colloqui di lavoro o nei processi, le persone sono spesso giudicate in base alla sincerità. Anche qui dunque, la velocità di risposta potrebbe avere un ruolo».

Ad esempio immaginiamo che a un colloquio di lavoro il selezionatore chieda a due candidate, Ann e Barb, se conoscono davvero il linguaggio di programmazione Javascript, come sostengono. Ann dice di sì immediatamente, mentre Barb risponde di sì dopo tre secondi.

«Lo studio suggerisce che in questa situazione il responsabile delle assunzioni è più propenso a credere ad Ann che a Barb, e quindi è più propenso ad assumere Ann», ha detto Ziano.

Un altro ambito in cui il tempo di risposta può essere importante è in tribunale: «Sarebbe ingiusto per il testimone o l’accusato se il ritardo della risposta fosse attribuito erroneamente dalla giuria all’intento di “fabbricare” una risposta, quando in realtà può essere dovuto a un fattore diverso, come semplicemente l’essere distratti o riflessivi», ha detto Ziano.

Istruire esplicitamente i partecipanti a non tenere conto del ritardo di una risposta riduce l’effetto sul giudizio di sincerità o colpa, ha dimostrato inoltre lo studio, ma non lo elimina completamente. «Nel complesso la nostra ricerca mostra che una risposta rapida sembra essere percepita come più sincera, mentre una risposta ritardata anche di un paio di secondi può essere considerata una bugia “lenta”», conclude Ziano.

Articolo: Slow Lies: Response Delays Promote Perceptions of Insincerity, di Ignazio Ziano, PhD, Grenoble Ecole de Management, e Deming Wang, PhD, James Cook University. Journal of Personality and Social Psychology, pubblicato online il 16 febbraio 2021.

Accettare la nostra rabbia durante la pandemia

Durante le (due, tre?) ondate della pandemia abbiamo attraversato varie fasi: all’inizio molte persone  hanno trovato grande difficoltà ad accettare le restrizioni per contenere il virus, altre ci sono riuscite con maggiore facilità, altre ancora hanno trovato le risorse per resistere alla preoccupazione e vivere il lavoro e le relazioni perfino con  maggior impegno. Tuttavia, il perdurare del pericolo sanitario e lo stress delle chiusure/aperture, delle zone gialle, arancioni e rosse ha imposto a tutti nuovi adattamenti anche sotto il profilo psicologico e portato a un alternarsi di emozioni che non sempre è facile accettare o gestire.

Ad esempio l’esperta di psicologia Tamsen Firestone, ha raccontato nel suo blog come durante la primissima fase della pandemia, nella primavera dello scorso anno, si era impegnata con ottimi risultati nel cambiare il proprio stile di vita per adattarlo alle esigenze del lockdown (ormai lo sappiamo bene: lavorare in modalità smart, fare le riunioni su zoom, farsi consegnare la spesa a casa, passeggiare con il cane e cucinare). Dopo l’estate la dottoressa ha cominciato a sentire un ottundimento, un sottofondo di solitudine e tristezza, come un senso di essere «tagliata fuori da elementi significativi della mia vita», che è riuscita comunque a superare. Ma nell’ultimo periodo, con l’inizio del 2021, la dottoressa Firestone ha notato in lei l’emergere una nuova, inaspettata emozione: la rabbia. Un’emozione che però non riusciva ad accettare e nemmeno a capire fino in fondo: «Semplicemente non ha senso. Le cose stanno decisamente migliorando. Alcuni dei miei amici sono già stati vaccinati e probabilmente anche io lo farò presto. C’è la sensazione che non solo possiamo vedere la luce alla fine del tunnel, ma anche che nei prossimi mesi ci arriveremo effettivamente. Allora perché questa rabbia?».

Riflettendoci più approfonditamente, la dottoressa Firestone capisce che probabilmente la rabbia è legata allo sforzo compiuto durante tutti gli ultimi mesi per mantenere una visione positiva, impegnarsi al meglio nell’eseguire i compiti quotidiani. Pensavo, spiega, di non avere il permesso di arrabbiarmi, visto che tante persone intorno a me a soffrivano di problemi più gravi: «Arrabbiarsi è una debolezza e ho bisogno di essere forte. Essere arrabbiati significa essere egoisti e infantili».

Il cuore della questione è proprio qui: in realtà la rabbia spesso deriva dall’essere frustrati nel perseguire ciò che conta per noi. In questo senso, è un riconoscimento di ciò che è importante per ognuno di noi. Quando neghiamo la nostra rabbia, neghiamo ciò che è significativo per noi, ci “spegniamo” e perdiamo la nostra vitalità.

Essere arrabbiati per non poter incontrare i figli o i nipoti, abbracciarli, non potersi muovere o viaggiare, perfino essere irritati per non poter uscire a cena fuori non significa dunque che siamo egoisti o insensibili alla sofferenza degli altri. Non toglie la compassione, la gratitudine e l’ottimismo che proviamo davvero. C’è una gran differenza fra provare sentimenti di rabbia e agire in preda alla rabbia: se i sentimenti di rabbia sono accettabili e dovrebbero avere libero sfogo nella nostra coscienza, la stessa libertà non vale per le nostre azioni. Abbiamo la piena responsabilità di tutti i nostri comportamenti verso gli altri e farsi trascinare dall’ira è sicuramente una risposta sbagliata, anche in una situazione difficile.

Inoltre, per gli adulti provare rabbia permette di lasciarla andare e proseguire oltre. Commenta infine la dottoressa Firestone: «Forse il fatto che questo incubo sembra volgere al termine mi ha permesso di rendermi conto che sono arrabbiata.  E mi sono sorpresa nello scoprire che non sono l’unica, le persone con cui ho parlato di recente hanno espresso la stessa frustrazione, impazienza e irritabilità. E hanno provato la stessa confusione e disapprovazione per le loro reazioni. Insomma, anche se so che tutti i sentimenti sono naturali e fanno parte dell’essere umano, continuo a dimenticare che essere arrabbiati va bene. Devo ricordarmi di accettare la rabbia con la stessa semplicità del Dalai Lama, che pare abbia detto: “Se un essere umano non mostra mai rabbia, allora penso che qualcosa in lui non va”».

Ph: Minervastock; courtesy Depositphoto.

Pensi di essere un “fake”? Non sei il solo, è la sindrome dell’impostore

“Un giorno gli altri scopriranno chi sono veramente, e allora sarò nei guai”: milioni di persone ogni giorno hanno preoccupazioni di questo tipo. Sono i pensieri che caratterizzano la sindrome dell’impostore, che può impedire alle persone di godersi i propri successi e vivere la vita con serenità.

La dottoressa Susan David è un’esperta nel campo e aiuta le persone ad affrontare la sindrome dell’impostore da molti anni. In un articolo apparso su McLean (Harvard Medical School) scrive che: “Possiamo definire la sindrome dell’impostore il pensare che siamo incompetenti o non abbastanza bravi, nonostante le prove del contrario”. Impiegati che pensano di non meritare un aumento o una promozione nonostante anni di ottimo lavoro, studenti che si sentono fuori posto tra i loro compagni di classe anche se hanno voti alti, amici che si sentono immeritevoli di essere accettati e temono di essere “scoperti”. Sono tutti esempi di come può manifestarsi la sindrome dell’impostore.

La dottoressa David spiega che la maggior parte delle persone sperimenta la sindrome dell’impostore nel corso della propria vita: «È importante sottolinearlo, perché molti pensano di essere i soli a sentirsi così. Invece capita a tanti, comprese persone altamente efficienti e competenti». Lo racconta ad esempio l’imprenditore tech australiano Mike Cannon-Brookes in una divertente Ted Conference del 2017, parlando della sua storia. Anche mentre riceveva un premio internazionale si sentiva «di non meritare di essere lì, di non essere all’altezza e che a un certo punto qualcuno lo avrebbe capito e ci avrebbe rispediti a casa, in Australia».

 

La sindrome dell’impostore si manifesta spesso e volentieri negli ambienti di lavoro. Ci sono persone anche molto competenti su un argomento che però nelle riunioni restano in silenzio, pensando fra sé: “Come sono capitato in questa stanza con persone che sono chiaramente più intelligenti di me? Scopriranno subito che sono un falso”. Il problema può ulteriormente complicarsi quando la sindrome dell’impostore si unisce a pregiudizi culturali: «Io lavoro molto con scienziate. Sono professioniste con abilità e competenze verificate sul campo, ma molto spesso si trovano in situazioni lavorative in cui sono le uniche donne. E qui entrano in gioco i pregiudizi e gli stereotipi: queste donne, che già sono in una posizione stressante, possono chiedersi se hanno davvero diritto di essere lì o stanno solo “fingendo”», spiega la dottoressa.

Non c’è una sola causa della sindrome dell’impostore. Tuttavia genitorialità, cultura e personalità giocano un ruolo importante. «Quando ci viene insegnato che il valore di una persona è legato solo a ciò che sa (come ad esempio all’andare bene a scuola), la possibilità di “non sapere” qualcosa può sollevare problemi di identità e di conseguenza far nascere la paura di essere “scoperti”. Spesso troviamo la sindrome dell’impostore nei perfezionisti o in persone estremamente coscienziose, che si preoccupano sempre di fare un lavoro di qualità e di dare un contributo efficace». Preoccuparsi della qualità del proprio lavoro e dell’impatto del proprio contributo è solitamente qualcosa di positivo, tuttavia, «dove queste qualità diventano un problema è quando sono legate al proprio senso di valore, o quando ci si identifica così tanto con queste qualità da non essere flessibili».

Indipendentemente dalla professione, dal sesso, dall’età o dalla cultura, chiunque soffra di sindrome dell’impostore può fare molto per affrontarla e sconfiggerla. «Sii compassionevole con te stesso», raccomanda la dottoressa David. «Comprendi che i tuoi pensieri e sentimenti possono derivare dall’essere un perfezionista o autocritico. Sappi che stai cercando di fare un buon lavoro in circostanze complicate. Capiterà qualche volta che non saprai la risposta e che le cose saranno difficili».

La dottoressa David invita le persone a non cercare di respingere i pensieri negativi, ma di provare a riaffermare le cose che apprezzano di più. «Quando le persone si concentrano sui loro valori, come la crescita personale o l’apprendimento o chi vogliono davvero essere, sono maggiormente attente a ciò che più importa e meno inclini ad ascoltare la voce della sindrome dell’impostore».  

“Marasma”, un film per non dimenticare le donne e i bambini nei manicomi

Una storia di cui si sa poco e per questo forse tanto più dolorosa: è quella dei bambini e delle donne internati nei manicomi prima che la rivoluzionaria legge Basaglia li chiudesse per sempre nel 1978. La racconta Cinzia Lo Fazio, autrice e produttrice del documentario Marasma, diretto dal regista Luigi Perelli e presentato il 29 gennaio in un evento Zoom promosso dalla Società Italiana di Psichiatria Democratica insieme al Centro Studi e Documentazione “Luigi Attenasio-Vieri Marzi“.

Come ha spiegato l’autrice durante l’incontro, il titolo del film (vincitore del Caorle Film Festival 2020) è nato durante le sue ricerche all’ex manicomio di Santa Maria della Pietà a Roma: le cartelle cliniche dei piccoli pazienti riportavano spesso come causa di morte la parola “marasma”. «Un termine che mi ha subito colpito moltissimo: ho scoperto poi che in medicina indica un estremo deperimento fisico e mentale. Quei bambini morivano di stenti nelle strutture che avrebbero dovuto curarli».

E i racconti che fanno i sopravvissuti, uomini e donne oggi 60-70enni profondamente segnati da quella terribile esperienza, sono atroci. «Ogni notte ci legavano mani e piedi al letto con delle fascette, ma alcuni potevano rimanere legati così anche settimane o mesi», ricorda Angelo, portato dalla madre a 6 anni a Villa Azzurra a Grugliasco (Torino), «Era come stare in croce: dico sempre che forse non sono più cattolico perché in croce ci sono già stato».  Chi entrava in quelle camerate con pazienti immobilizzati al letto per giorni e mai puliti veniva assalito dal fetore nauseabondo di escrementi. «Quell’odore di urina e segatura non te lo scordi finché vivi», rammenta ancora Angelo.

Il giornalista Alberto Gaino, autore del libro Il manicomio dei bambini, precisa che molti dei bambini rinchiusi negli istituti erano i figli più poveri e fragili del boom economico e demografico degli anni Sessanta, gli ultimi delle numerose famiglie di emigranti che si trasferivano nelle città del Nord per lavorare e non riuscivano a occuparsi di loro. Ancora fino ai primi anni ’70, ricorda il neuropsichiatra infantile Maurizio Andolfi, «la psichiatria infantile era relegata letteralmente negli scantinati: a volte genitori poverissimi ci portavano i figli avvolti nella carta di giornale». Secondo alcune stime furono circa 200mila i bambini rinchiusi in 5000 strutture italiane pubbliche e private, dal dopoguerra al 1978.

Si finiva in veri e propri lager come Villa Azzurra per molto poco, a volte bastava essere figli illegittimi: da lì si cominciava una discesa all’inferno che spesso durava tutta la vita, passando direttamente dal manicomio dei minori a quello degli adulti. È la «pedagogia nera» ben descritta da Antonello D’Elia, presidente di Psichiatria Democratica, nel presentare Marasma.

Nei manicomi venivano rinchiusi non solo i bambini ma anche le donne, magari perché avevano avuto figli fuori dal matrimonio o si rifiutavano di sposarsi con uomini scelti dalla famiglia. «La società era pronta a glorificare il femminile quando si esprimeva nelle forme canoniche e accettabili  di sposa e madre, a mortificarlo invece quando veniva visto come eterodosso», nota Annacarla Valeriano (autrice di Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista, 2017).

Ascoltando oggi le storie di questi ex pazienti sembra incredibile che alcuni di loro ce l’abbiano fatta, sopravvivendo alla violenza, all’abbandono, agli elettroshock. «Eppure ci sono riusciti, e proprio attraverso storie di riscatto come quella di Angelo Marasma vuole essere un messaggio di speranza», commenta Cinzia Lo Fazio, «oltre che fare luce anche per un pubblico non specialistico su un fenomeno di cui non si sa ancora abbastanza».

Perché, come hanno notato molti dei relatori durante l’evento di presentazione, il pericolo sempre dietro l’angolo è che le logiche dell’istituzione manicomiale, permeate dall’idea di segregare e annullare i diversi o i più deboli, possano ritornare sotto altre forme se non ne manteniamo viva la memoria.