Press "Enter" to skip to content

Posts published in “In evidenza”

Risorse per la fase 2 (e 3)

A un mese dall’inizio della tanto attesa fase 2 e alle porte della fase 3, il mondo si trova a fare i conti con una realtà in parte diversa da quella lasciata prima del lockdown.

Le regole del distanziamento sociale hanno cambiato il modo di rapportarsi agli altri 

Le regole del distanziamento sociale e della sicurezza hanno cambiato il modo di rapportarsi agli altri e all’ambiente che ci circonda. Adattarsi a tutto questo non è sempre semplice e tra una mascherina e un gel igienizzante, può capitare che ci si senta impacciati o a disagio anche di fronte ad un vecchio amico che si incontra per strada.

Fase 2: gli equilibri stravolti di single e famiglie

La fase 2, oltre ad una realtà mutata, si porta dietro anche gli strascichi di abitudini ed equilibri che il lockdown ha improvvisamente stravolto. I nuclei familiari e le coppie si sono trovati a fronteggiare una routine completamente diversa e a fare i conti con nuove e inaspettate dinamiche relazionali. I single invece, e tutti coloro che non hanno potuto condividere con qualcuno l’esperienza del lockdown, si sono trovati ad affrontare paura e solitudine contando esclusivamente sulle proprie forze. Mentre il mondo gradualmente riparte e la fase 2 continua ad evolversi, gli equilibri e gli assetti di molti di noi non sono più gli stessi e tornare indietro non è possibile. La verità è che la pandemia da Covid è stata nuova e sconvolgente e oltre a non avere avuto esperienze simili da cui trarre esempio, ci ha privato dell’ingaggio sociale che è uno degli strumenti fondamentali utilizzati dal nostro sistema nervoso per far fronte allo stress e al pericolo. La socializzazione e il bisogno di stare con gli altri fanno parte del nostro DNA poiché solo grazie al gruppo l’uomo ha potuto sopravvivere ai pericoli del passato.

Rintracciare le risorse per combattere l’ansia e il disagio

Eppure c’è qualcosa che questa pandemia non può toglierci. La possibilità di rintracciare e utilizzare le nostre risorse. La psicoterapia Sensomotoria fonda gran parte del suo trattamento sull’identificazione e lo sviluppo delle proprie risorse personali. Possiamo definire le risorse come tutte quelle capacità che ci hanno aiutato ad affrontare e superare una situazione difficile o che ci hanno fatto raggiungere dei traguardi: magari ci hanno aiutato ad affrontare un trauma, un dolore emotivo o più semplicemente un periodo di tensione e di stress, magari ci hanno aiutato a raggiungere un obiettivo e ad avere successo. O magari ci hanno aiutato a gestire l’ansia e l’attivazione fisiologica dovute a qualcosa che non è andato come immaginavamo. Ognuno di noi possiede delle risorse, anche coloro che credono di non averne.

Un piccolo ma utile esercizio per un periodo difficile

Vi propongo quindi un piccolo esercizio per rintracciare le risorse che potrebbe tornarvi utile in questo periodo difficile che stiamo vivendo.

Provate a pensare a quali risorse avete utilizzato in passato per raggiungere qualche traguardo o successo. Non devono necessariamente essere grandi traguardi: potete scegliere anche dei piccoli successi o piccoli episodi, apparentemente banali, che vi hanno fatto sentire fieri di voi stessi.

Ora mettetevi comodi e trovate una posizione in cui poter stare a vostro agio. Tornate con il pensiero ad un momento nella vostra vita in cui avete avuto la sensazione di aver gestito efficacemente una situazione, in cui vi siete sentiti soddisfatti. Quali risorse avete attivato? Quali capacità avete messo in atto? Concedetevi qualche minuto per pensare e ricordare.

Ora, scegliete una risorsa o una capacità tra quelle che avete individuato e provate a rimanere per qualche minuto con il pensiero di questa risorsa. Pensare a questa risorsa come vi fa sentire? Ci sono delle sensazioni fisiche? C’è qualche emozione? Continuate a rimanere per qualche minuto in contatto con questa risorsa, assaporate la sensazione che ne deriva e provate a vedere se in qualche modo il vostro corpo e il vostro respiro ne beneficiano. La risorsa individuata potrebbe tornarvi utile oggi per fronteggiare il vostro presente e i cambiamenti che ne sono derivati?

Se vi sembra che possa piacervi, dopo aver letto le istruzioni provate a fare l’esercizio ad occhi chiusi rimanendo in contatto con le altre risorse individuate. Non possiamo controllare ed evitare la rabbia, il dolore e la paura che quest’emergenza mondiale ha causato ma possiamo imparare a convivere con esse senza che prendano il sopravvento.

Riferimenti bibliografici: Maria Puliatti, La psicotraumatologia nella pratica clinica, Milano, Mimesis, 2017

Invidia: perché la proviamo tutti?

Che cos’è l’invidia?

A tutti prima o poi nella vita è capitato di invidiare qualcun altro, o perché possedeva una macchina o una casa più belle delle nostre, o perché era (o ci sembrava) più bello, intelligente, di successo. Ma cos’è esattamente l’invidia? È legata al possesso di un bene o a qualcos’altro? Ci sono persone più predisposte a questo sentimento che causa tanta sofferenza in chi lo prova? Questo è il primo articolo di una serie di tre che ci aiuta a capire meglio l’invidia e a difenderci dai suoi effetti negativi.

Un’emozione sociale

La prima cosa importante da sottolineare è che l’invidia è un’emozione sociale, determinata dal rapporto con gli altri e rivolta verso gli altri. Viene “accesa” da un bene che si desidera ma non si possiede e dal confronto svantaggioso nei confronti di qualcuno che lo ha ottenuto. Quando il dolore per il desiderio frustrato prende la strada dell’ostilità verso chi ci sembra “avvantaggiato”, ecco che ci troviamo di fronte all’invidia.

Si può invidiare qualsiasi cosa?

La gamma degli oggetti “invidiabili” è amplissima, probabilmente infinita: dall’automobile, alla casa, alla forza di volontà o alla serenità di spirito di un’altra persona, tanto che addirittura Gucci ha impostato un’intera campagna pubblicitaria su un profumo il cui nome era proprio Envy me, invidiami.

Tra i beni desiderabili ci sono sicuramente i beni di lusso, i più esclusivi, che evidenziano un’elevata posizione sociale, permettono di farsi notare. Si parla infatti in questo caso di beni “posizionali”, vale a dire funzionali a stabilire il rango di un individuo nella gerarchia sociale, indipendentemente dal valore assoluto del bene in sé. Talvolta, il desiderio di ottenere un determinato bene sorge “a posteriori”, quando l’invidioso si accorge della soddisfazione o del prestigio sociale che ne ricava l’invidiato.

L’invidia come desiderio di potere

Alcuni studiosi sostengono che desiderare qualcosa perché la possiede un altro sia una caratteristica necessaria dell’invidia, e permette di distinguere il desiderio dell’invidioso dal desiderio puro e semplice per un determinato bene.

In ogni caso, il criterio fondamentale per individuare l’invidia è la compresenza di un altro desiderio, cioè che l’avvantaggiato perda il bene in questione, anche se la perdita di questo bene non si traduce in un’acquisizione corrispondente per l’invidioso. Questo accade perché ciò che caratterizza l’invidia non è la semplice mancanza del bene desiderato, ma il senso di inferiorità che la genera.

Infatti, se va un po’ più a fondo nell’analisi, ciò che veramente invidiamo non è questa o quella cosa, ma il potere. Il potere inteso come qualsiasi mezzo, materiale o immateriale, che può aiutarci a soddisfare i nostri scopi: soldi, posizione sociale, bellezza, intelligenza. La differenza di potere tra due persone può essere colmata in due modi: lo svantaggiato acquisisce il bene desiderato, oppure l’avvantaggiato perde il bene in questione.

Ecco perché l’invidioso si trova a desiderare il danno dell’altro: perché gli permette di riequilibrare la differenza di potere. In altre parole, il bene mancante svolge il ruolo di occasione per il confronto di potere. Ed è il senso di inferiorità, risultante dal confronto, la strada maestra che porta all’invidia. Tant’è vero che l’invidioso non desidera necessariamente che l’invidiato perda quel determinato bene su cui è avvenuto il confronto: può anche desiderare che perda qualcos’altro, che ai suoi occhi ha un’importanza equivalente.

Il costante confronto con gli altri

In effetti, ciò che conta nella vita sociale è essere dotati di abbastanza potere (risorse, abilità, competenze) rispetto a quello altrui, perché la capacità di soddisfare i nostri scopi in qualche modo è di natura comparativa: essere ricchi o poveri, attraenti o non attraenti, intelligenti o stupidi dipende sempre dal confronto con la ricchezza, la bellezza, l’intelligenza altrui. Quindi i beni o le capacità in mio possesso saranno sufficienti a consentire la soddisfazione dei miei scopi se io non sono meno (o sono più) dotato degli altri. Solo in questo caso sarò abbastanza ricco, attraente o intelligente. Come recita un famoso detto evangelico: un guercio è senz’altro svantaggiato in un mondo di vedenti, ma sarà “beato” in un mondo di ciechi.

Il ruolo del confronto è evidente nelle società più povere, in cui i beni disponibili sono scarsi e quindi il vantaggio di un individuo si traduce immediatamente nello svantaggio di un altro. Ma l’invidia può fiorire anche nelle società più ricche, perché è alimentata dalla loro natura competitiva, e quindi dal desiderio di superare gli altri e da quello di non essere superati da loro. Del resto, in ogni organizzazione gerarchica il successo e il rango conquistati da un individuo mettono a repentaglio quelli degli altri, facendoli regredire o riducendo la loro distanza dagli “inferiori”.

Si può invidiare anche chi è “inferiore”?

Sembrerebbe ovvio pensare dunque che un superiore nella scala gerarchica non possa invidiare un suo inferiore. Ma non è così. A volte, infatti, notiamo con qualche stupore il capoufficio che invidia il dipendente, il professore che invidia l’allievo, il professionista affermato che invidia il praticante appena assunto.

Tuttavia a ben guardare non c’è molto da stupirsi, perché non esiste soltanto la gerarchia creata in base alla posizione sociale (reddito, cultura, ruolo decisionale). Le “gerarchie” possibili sono tante, alcune istituzionalizzate, altre più soggettive. Il capufficio non invidierà certo la posizione sociale del suo dipendente: ma gli potrà invidiare altre cose, l’intraprendenza, l’intelligenza, la giovane età, il fatto che a quell’età abbia conseguito dei successi che lui, alla sua età, non aveva ottenuto.

Sotto gli occhi degli altri

Ma avere abbastanza potere rispetto a quello altrui, per quanto importante, non basta. È necessario che gli altri credano che le cose stanno così. Sono le valutazioni degli altri (più o meno esplicite o consapevoli) sulle nostre capacità a determinare se sceglieranno o meno di interagire con noi, di accettare le nostre richieste di cooperazione e di scambio e di lasciarsi influenzare dal nostro giudizio. E ricevere attenzione, aiuto e cooperazione dagli altri ha una grande importanza per noi: è un modo per accrescere il nostro potere di partenza, fornendoci mezzi ulteriori per soddisfare i nostri scopi. Perciò siamo molto interessati sia a conoscere il punto di vista degli altri su di noi (per capire cosa aspettarsi da loro e come eventualmente modificare il loro giudizio su di noi) sia a ricevere le loro valutazioni positive. La nostra posizione nella gerarchia sociale dipende da queste valutazioni comparative sui nostri meriti, sulla nostra reputazione e sul nostro prestigio.

Di qui, l’importanza di avere una buona immagine sociale e il suo rapporto con lo scopo di avere potere, e in particolare quello di avere più (o meno) potere di altri, cioè di essere superiori o di non essere inferiori. Infatti, anche quello di una buona immagine presso gli altri è un concetto comparativo: significa avere un’immagine migliore (e non peggiore) di quella degli altri.

Fonte: Maria Miceli, L’invidia. Anatomia di un’emozione inconfessabile, Bologna, Il Mulino, 2012.

Disturbo post traumatico da stress e resilienza

Sappiamo che il trauma psicologico è uno dei fattori che contribuiscono maggiormente allo sviluppo di disordini affettivi, dell’alimentazione, del sonno e dei tentativi di suicidio. E in tempi di lockdown e di ansia da Coronavirus, l’idea che tutta Italia abbia vissuto una sorta di trauma collettivo è stata più volte menzionata da vari commentatori sui giornali e in TV, insieme alla resilienza e al disturbo post traumatico da stress (DPTS). Cerchiamo allora di fare un po’ di chiarezza su questi due concetti, alla luce delle ricerche più recenti.

Possiamo definire la resilienza come la risposta fisiologica a un evento traumatico: è un processo dinamico che comprende adattamenti positivi anche in un contesto avverso. Nei soggetti resilienti sono descritte maggiori capacità di controllo volontario (definito top-down) nella regolazione delle emozioni, insieme a un’elaborazione maggiormente consapevole del vissuto traumatico.

Il disturbo post traumatico da stress è un disturbo abbastanza diffuso nella popolazione, circa il 4%. Il sintomo prevalente è la dissociazione, presente nel 15-30% dei pazienti, che comporta l’interruzione completa o parziale di alcune funzioni cognitive, come memoria, identità, emozione, percezione e consapevolezza corporea. La dissociazione si manifesta prevalentemente con perdita di contatto con il proprio corpo e con l’ambiente circostante.

IL DPTS viene interpretato come un disturbo disfunzionale dell’apprendimento, in particolare con un iniziale squilibrio della memoria e una conseguente disregolazione dell’umore. È caratterizzato da una risposta a eventi stressanti condizionata da un precedente evento traumatico. L’ipotesi più accreditata è che tale evento viene rivissuto internamente sotto forma di flashback con rivisitazione involontaria dell’evento, reazioni neurofisiologiche concomitanti (palpitazioni, accelerazione del respiro, ecc.) e reazioni motorie negative con evitamento di situazioni collegate al trauma, irritabilità, ritiro emozionale e dalle attività sociali.

Gli studi sul DPTS sono cominciati a partire dagli anni ’90 e sono stati condotti principalmente sui veterani americani del Vietnam che presentavano sintomi psichicamente invalidanti. Sono stati messi a punto protocolli di studio per i quali, somministrando ai pazienti degli stimoli (script) che facevano riemergere memorie traumatiche, venivano attivate specifiche aree cerebrali come ippocampo, amigdala, corteccia prefrontale, corteccia cingolata anteriore, insula e altre ancora.

Nella più recente edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5, 2013) sono stati descritti altri sintomi come alterazioni negative dell’umore, della memoria e di altre abilità cognitive, legate alla disfunzione dell’ippocampo, una regione del Sistema nervoso centrale dedicata prevalentemente all’immagazzinamento e al richiamo di nuove informazioni.  La memoria del trauma attiva infatti delle reti cerebrali coinvolte nella risposta a eventi stressanti e che incutono timore, provocando una reazione di attivazione generalizzata in tutto il corpo.

Di seguito una breve analisi delle modificazioni morfologiche e funzionali a livello delle regioni cerebrali di grande importanza nel DPTS, ovvero ippocampo, amigdala e corteccia prefrontale. Tutte queste regioni fanno parte di una rete cerebrale coinvolta in processi chiave tra cui il condizionamento alla paura, la regolazione degli stimoli emotivi e la valutazione delle informazioni relative al contesto.

Ippocampo

L’ippocampo ha un ruolo molto importante nei circuiti della memoria. Varie ricerche hanno descritto una riduzione di volume e dell’attivazione dell’ippocampo associata al disturbo post traumatico da stress, in seguito a traumi psicologici in veterani di guerra rispetto a soggetti sani, probabilmente in conseguenza dell’incremento della secrezione cronica di cortisolo associata a questo disturbo (Veer et al., 2012).

A ulteriore conferma di una consistente implicazione dell’ippocampo, studi più recenti (Khalaf et al., 2018), hanno documentato che la riesposizione al ricordo di eventi traumatici, rispetto alla semplice soppressione del ricordo stesso, dia risultati molto convincenti nel processo di guarigione dal trauma psicologico.  

Amigdala

L’amigdala, invece, è una porzione cerebrale molto importante nella risposta emotiva, e presenta un’elevata attivazione nei soggetti sintomatici per DPTS. Infatti, l’amigdala è fortemente coinvolta nell’interpretazione e nella valutazione del contenuto emotivo degli stimoli e riveste un ruolo cruciale nei meccanismi di risposta allo stress e alla paura. I pazienti con DPTS sono particolarmente sensibili alle minacce potenziali provenienti dall’ambiente circostante ed associate al trauma subito, e spesso soffrono di un condizionamento alla paura, associato ad una iperattivazione patologica dell’amigdala, la quale avviene principalmente in presenza di stimoli ambigui o negativi.

In alcuni studi, inoltre, è stato anche documentato il fatto che anche l’esposizione a maltrattamento infantile, indipendentemente dallo sviluppo di DPTS, possa influenzare lo sviluppo anomalo dell’amigdala.

Corteccia prefrontale

Per quel che riguarda la corteccia prefrontale (PFC) infine, gli studi di neuroimmagini funzionali in pazienti con DPTS ne hanno evidenziato una ridotta attivazione; in particolare, nelle reti di connessione con l’amigdala, molto importanti nella regolazione delle risposte emotive. La PFC riduce l’attivazione dell’amigdala, attenuando la risposta agli stimoli ansiogeni. Per questo motivo, i pazienti con DPTS, in mancanza di una corretta e pronta inibizione dell’amigdala da parte della PFC, mostrano una risposta patologica agli affetti negativi.

Senza entrare nel dettaglio, possiamo dire che i trattamenti terapeutici più aggiornati hanno comportato, insieme al miglioramento dei sintomi caratteristici (pensieri intrusivi, rimuginazioni, disturbi dissociativi veri e propri), la modificazione delle risposte emotive. Si è assistito infatti alla transizione verso risposte emotive meno automatiche ma più articolate e consapevoli, con il parallelo spostamento dell’attivazione da regioni cerebrali più antiche (come l’amigdala) verso regioni cerebrali più recenti come la corteccia prefrontale.

 

I benefici della mindfulness nelle neuroimmagini

La pratica della mindfulness è un compito che, come sa bene ogni meditatore soprattutto alle prime armi, richiede sforzo cognitivo e attenzione: ma fin da subito può contribuire a ridurre il vagabondare della mente (mind-wandering) e i rimuginii mentali rivolti al passato o al futuro, consentendo ai praticanti di rimanere maggiormente aderenti all’esperienza del momento presente.

Infatti, quando la mente divaga sembrano attivarsi le strutture cerebrali responsabili del ricordo degli eventi passati e dell’immaginazione di quelli futuri (corteccia cingolata posteriore, corteccia prefrontale mediale, giro paraippocampale e le cortecce posteriori/laterali temporali e parietali), contribuendo a formare il cosiddetto sistema Mental Time Travel, che permette agli esseri umani di viaggiare mentalmente nel tempo. Pare che tale sistema neuropsicologico possa essere attivato in modo automatico e inconsapevole dalle persone, contribuendo alla disposizione della mente a perdersi nel flusso temporale dei pensieri e degli scenari che spesso alimentano sofferenza psicologica e sintomi ansioso-depressivi. In effetti studi neuropsicologici e in particolare di neuroimmagini hanno documentato una correlazione tra la riduzione del mind wandering e la ruminazione grazie alla pratica meditativa e riduzione dei sintomi ansioso depressivi.

Dal punto di vista delle neuroimmagini, poi, è stata osservata una correlazione tra meditazione mindfulness e aumento della densità e volume della sostanza grigia a livello della corteccia pre frontale dorsale, della corteccia temporale, dell’ippocampo, della corteccia cingolata e dell’insula. I cambiamenti hanno riguardato anche strutture sottocorticali come il putamen e il cervelletto. Inoltre, l’effetto della pratica meditativa sembra produrre minore perdita di sostanza grigia cerebrale con l’avanzare dell’età.

La regolazione delle emozioni

Entriamo più nello specifico. Con la mindfulness si impara a stabilire un distacco rispetto alle proprie reazioni emotive senza fondersi o farsi sopraffare da esse. Ne consegue minore reattività emotiva e maggiori capacità di “fare fronte” (coping) rispetto alle emozioni disturbanti. È possibile pertanto che la meditazione migliori la capacità di sganciarsi dai meccanismi che portano ad associare stati d’animo negativi a determinate esperienze, sostituendoli con altri stati d’animo più positivi e riducendo così rimuginii mentali e reattività emotiva.

Recenti studi di neuroimmagini hanno verificato che meditatori esperti presentano una riduzione dell’attivazione di alcune aree cerebrali (in particolare, delle aree pre frontali) durante l’esposizione di immagini con un certo contenuto emotivo, e cambiamenti strutturali in alcune regioni cerebrali (come la corteccia pre frontale ventro mediale e l’ippocampo), cruciali nell’inibizione di risposte comportamentali condizionate dalla paura.

In definitiva, gli studi di neuroimmagini hanno confermato che, mentre un soggetto non esperto di meditazione, metterebbe in atto meccanismi di controllo top-down (quindi dall’alto verso il basso) sull’esperienza sensoriale, durante la regolazione delle emozioni, un soggetto esperto di meditazione potrebbe non aver bisogno di una regolazione e di un controllo attivo per gestire le risposte emotive, avendo maggiormente automatizzato una risposta di tipo bottom up (quindi dal basso verso l’alto) di minore reattività e di maggiore accettazione dell’esperienza emotiva positiva o negativa, legata al qui e ora.

Questi risultati sono la base teorica dell’impiego di queste tecniche meditative negli approcci di psicoterapia cognitivo comportamentale di “terza generazione” basati sulla mindfulness, come la DBT, ideata e sviluppata da Marsha Linehan, che si è mostrata efficace per problemi di disregolazione emotiva e difficoltà nel controllo degli impulsi, in particolare per il Disturbo Borderline di Personalità, promuovendo una minore reattività emotiva e nuovi schemi comportamentali e azioni più flessibili ed efficaci.

La consapevolezza del corpo

La pratica meditativa segnala l’importanza della consapevolezza diretta del corpo, senza intermediari. Si tratta di prendere un contatto diretto con le sensazioni del proprio corpo, dal momento che l’attenzione non giudicante applicata alle sensazioni corporee ha un importante potere trasformante, cosicché una maggiore consapevolezza delle proprie emozioni aiuta a regolare meglio tensioni e malesseri, che solitamente si realizzano con sintomi corporei.

Gli studi di neuroimmagini hanno documentato cambiamenti strutturali consistenti a livello di alcune regioni cerebrali (in particolare, insula, della corteccia somato sensoriale e a livello della giunzione temporo parietale) che giocano un ruolo cruciale nella percezione degli stati interni del corpo e delle sensazioni provenienti dal mondo esterno.

La rappresentazione del sé

Studi neuropsicologici hanno attestato come la prativa meditativa costante aiuti a ridurre i tratti caratteriali di nevroticismo (scarsa resistenza a stress di tipo emotivo, tendenza all’ansietà e irritabilità) e a migliorare i livelli di coscienziosità (affidabilità e responsabilità nel comportamento di un individuo, nonché la sua autodisciplina e la sua perseveranza). Inoltre, individui esperti di meditazione sembrano essere in grado di impegnarsi in un’analisi della realtà sensoriale più distaccata ed oggettiva, riuscendo a lasciar andare una elaborazione degli stimoli maggiormente condizionata da stati d’animo soggettivi.

In definitiva, grazie alla mindfulness, il paziente sviluppa un maggiore distacco dai propri contenuti di pensiero e abbraccia una visione di sé più dinamica e aderente alla realtà.

Mindfulness e compassione

La mindfulness presenta numerosi ulteriori benefici. In primo luogo, aiuta ad affrontare meglio il dolore inevitabile o il senso di fallimento che si sperimenta nella vita, che quindi non viene amplificato e perpetuato attraverso una dura autocritica, praticando una gentilezza amorevole verso se stessi. In secondo luogo, riduce l’egocentrismo alla base della sensazione separativa di isolamento dal resto dell’umanità, aumentando invece la sensazione di interconnessione. Inoltre, tenere presente che la sofferenza e il senso di fallimento accadono a tutte le persone, aiuta a contestualizzare la propria esperienza in una prospettiva più ampia e sviluppa la capacità di porre attenzione in modo consapevole ai propri pensieri ed emozioni, senza identificarsi eccessivamente con essi.   

Questi risultati hanno condotto, tra l’altro, all’elaborazione della Compassion Focused Therapy (CFT), una terapia strutturata su interventi cognitivo-comportamentali, sull’importanza della relazione terapeutica e sull’uso della mindfulness in ambito clinico.

Fonti: La neuroscienza della mindfulness, di Fabio D’Antoni, Cristiano Crescentini, Alberto Chiesa in Il Cervello che cambia. Neuro-imaging: il contributo alle neuroscienze, a cura di Marco Pagani e Sara Carletto, Mimesis

 

Il trauma si trasmette da una generazione all’altra: lo conferma l’epigenetica

Gli studiosi lanciano l’allarme: il Coronavirus è un evento traumatico destinato ad avere ripercussioni anche quando l’emergenza sarà finita, in primo luogo per gli operatori sanitari, medici e infermieri, sottoposti a uno stress senza precedenti, ma anche per le coloro che sono stati ricoverati, i parenti di pazienti deceduti e la tutta popolazione. E soprattutto potrebbe riflettersi anche sulle generazioni che verranno.

Che un evento traumatico possa trasmettersi attraverso le generazioni è un’ipotesi che già Sigmund Freud aveva avanzato agli inizi del Novecento parlando di una “trasmissione filogenetica” del trauma. Nella mente, cioè, si attuerebbe un meccanismo di rielaborazione continua e di ricodifica del materiale psichico in modalità sempre più complesse: ma quando questo non avviene in maniera corretta, il materiale psichico precedente non viene integrato e pertanto viene rimosso creando le premesse di un disagio profondo.

Queste ipotesi psicologiche sono state recentemente verificate attraverso l’epigenetica.

Che cosa è l’epigenetica? È lo studio di quelle variazioni nell’espressione dei nostri geni che non sono provocate da vere e proprie mutazioni genetiche, ma che possono essere trasmissibili. Utilizzando un linguaggio più tecnico, invece, possiamo affermare che l’epigenetica studia tutte quelle modifiche e tutti quei cambiamenti che sono in grado di variare alcune caratteristiche di un individuo (il fenotipo), senza tuttavia essere associate a modifiche di aspetti strutturali del DNA (il genotipo).

Effetti epigenetici degli eventi avversi

Gli eventi avversi, siano essi traumi o eventi di vita stressanti, rappresentano uno dei più importanti fattori di rischio trasversali a diverse patologie di tipo mentale e fisico. In particolare, esperienze traumatiche e stressanti durante il periodo perinatale, l’infanzia e la prima adolescenza, che includono l’abbandono, la deprivazione affettiva e gli abusi psicologici, fisici e sessuali, possono determinare una condizione di vulnerabilità allo sviluppo di disturbi della sfera emotiva e cognitiva, fino a provocare un marcato aumento dell’insorgenza di condizioni psichiatriche quali i disturbi post traumatici, affettivi e di personalità.

Trasmissione degli effetti degli eventi avversi alle generazioni successive: possibili meccanismi

Diversi studi hanno dimostrato che eventi stressanti e traumatici verificatisi nella madre, prima del concepimento o in epoca prenatale, possono avere ripercussioni sulla salute e il comportamento dei figli e in alcuni casi anche nelle generazioni successive, attraverso modificazioni a livello epigenetico. Nello specifico, si parla di trasmissione intergenerazionale quando si verifica una modificazione delle cellule somatiche dalla generazione che ha subito il trauma (generazione F0) alla generazione successiva (F1). Se tali modificazioni vengono mantenute non soltanto a livello delle cellule somatiche, ma anche alle cellule germinali (spermatozoi od ovociti) dei soggetti F1 e trasmesse alle generazioni successive (F2, F3 ecc.) si parla invece di trasmissione transgenerazionale. In breve, si possono individuare tre potenziali meccanismi con cui un evento traumatico del genitore può modificare l’epigenoma dei figli e dei nipoti: Traumatizzazione mediata o secondaria; Riprogrammazione fetale; Effetto transgenerazionale.

Traumatizzazione mediata o secondaria

Gli schemi comportamentali del genitore che ha subito un trauma determinano delle modificazioni epigenetiche che si instaurano sul feto, per esempio vivere con genitori che manifestano fenotipi patologici a seguito del trauma (depressione, disturbo post traumatico da stress e così via). Uno studio storico di Weaver del 2004 condotto sui topi mostra che il comportamento della madre nei primi giorni di vita (leccamento e pulizia) modifica l’espressione del recettore dei glucocorticoidi nei cuccioli che regola i meccanismi di maggiore o minore attivazione in risposta allo stress. Questi risultati indicano che le differenze nella reattività allo stress attraverso le generazioni possano essere mediate dal comportamento dei genitori piuttosto che da un’eredità genetica classica.

Riprogrammazione fetale

Se durante la gravidanza la madre subisce un evento traumatico, ciò può portare modificazioni a livello ormonale e nell’ambiente uterino tali da ridurre una riprogrammazione dell’epigenoma e un’alterazione dello sviluppo fetale, che potranno poi influenzare la salute e il comportamento del nascituro anche in età adulta.

Trasmissione transgenerazionale

Il trauma subito induce modificazioni stabili a carico delle cellule germinali che potranno poi essere trasmesse ai figli (trasmissione epigenetica intergenerazionale) e da essi alle successive generazioni (trasmissione epigenetica transgenerazionale).

 Conclusioni

Le ricerche dimostrano che eventi stressanti provocano non solo traumi a livello psicologico e immediato, ma possono anche determinare su ampia scala effetti epigenetici, ossia modifiche nella espressione genica del DNA e potenzialmente trasmessi alle generazioni successive.

In prospettiva, la valutazione del grado di compromissione biologica associata al trauma, valutata in fase precoce attraverso l’analisi del profilo epigenetico, potrebbe offrire l’opportunità di individuare i soggetti maggiormente vulnerabili allo sviluppo di problemi legati alla salute fisica e mentale, consentendo di programmare in maniera estremamente precoce adeguati interventi preventivi, ma anche di predire l’esito dei trattamenti stessi e di mettere in atto opportune strategie di intervento farmacologico.

a cura di Pietro Spinelli

(Tratto da Alessandra Minelli, Elisabetta Maffioletti, Chiara Magri, Il cervello che cambia. Neuro-imaging: il contributo alle neuroscienze, Mimesis)

 

 

 

 

 

   

 

Coronavirus: l’ansia ci aiuta a rispettare le regole

Il sindaco di Milano Beppe Sala, giorni fa, in un video rivolto alla cittadinanza ha chiesto la sospensione dell’aggiornamento quotidiano dei dati sui contagi. Eppure mantenere una “giusta” quota di ansia ci motiva ad adottare i comportamenti salvavita raccomandati da scienziati e istituzioni e a sviluppare il complesso processo di accettazione necessario per tollerare la difficile realtà che stiamo vivendo.

Il sindaco di Milano Beppe Sala, giorni fa, in un video rivolto alla cittadinanza ha chiesto la sospensione dell’aggiornamento quotidiano dei dati sui contagi. L’invito, sotto forma di riflessione, lo fa citando il professor Silvio Garattini e spiega in questo modo il motivo della sua richiesta: “Sarebbe meglio comunicare le cifre ogni tre o quattro giorni, ragionare sulla giornata rischia di creare solo ansia tra la gente”. Mi sembra utile introdurre una riflessione sul ruolo dell’ansia e della paura nell’organismo umano.

Ansia e paura

L’ansia e la paura, come è noto, sono delle emozioni universali, cioè degli stati interni fisici – le emozioni si sentono nel corpo – predisposti geneticamente che svolgono delle funzioni necessarie per la sopravvivenza degli esseri umani. In particolare definiamo l’ansia come una sensazione di attesa di qualcosa di indefinito o un’irrequietezza psichica che ci segnala la presenza di un pericolo per la sopravvivenza. Il senso del pericolo in questo caso sembra indefinito. Mentre la paura è considerata un’emozione di minaccia più intensa, che si prova alla presenza di un pericolo chiaro. Vedo un leone davanti a me e provo paura.  

Questo significa che in assenza di un buon funzionamento delle emozioni di ansia e di paura, in certe situazioni, potremmo esporci a dei pericoli reali senza averne consapevolezza e senza preparare le “armi” per difenderci. Inoltre, dicono gli studiosi, un certo tipo di ansia può essere utile, non solo in presenza di un pericolo per la sopravvivenza, ma anche in alcune attività che richiedono concentrazione e attenzione. Se fossimo completamente rilassati in una situazioni quali un esame o una partita di tennis, ad esempio, potremmo non dare il meglio.

La presenza di una paura eccessiva, al contrario, compromette ogni tipo di prestazione, perché la persona con emozioni molto elevate si concentra solitamente sui sintomi emotivi, anziché sul compito che sta facendo e prova un impulso a fuggire difficile da gestire e finisce spesso per essere disattento o confondersi più facilmente. Infine un’eccessiva quota di ansia e paura, ricordano i medici in questi giorni, potrebbe attivare il nostro sistema neurovegetativo autonomo e mettere in circolo adrenalina, noradrenalina e cortisolo, tutte sostanze che mettono sotto stress il sistema immunitario.

Il sindaco di Milano con l’intenzione di prevenire l’ansia della gente, con le sue riflessioni, cercava forse di proteggere le persone dallo stress del sistema immunitario per non renderle fragili al contagio o forse voleva evitare nuove fughe dalla città, come è successo con i giovani tornati al Sud e che sono finiti a contagiare i loro familiari. Sembra un’intenzione condivisibile. Ma queste dichiarazioni ci portano a riflettere ancora su un certo atteggiamento di alcuni politici che tendono a rassicurare e a “nascondere”. Proviamo ad analizzarne le conseguenze.

Una sfida inusuale per la nostra società

Tutt’a un tratto ci siamo dovuti fermare e abbiamo dovuto rinunciare a una serie di equilibri costruiti nel tempo. Abbiamo dovuto rinunciare ad andare al lavoro, vedere colleghi, vedere amici, nonni o genitori anziani che in questo momento avrebbero di certo bisogno di noi, abbiamo dovuto cambiare il modo di trascorrere il tempo, non ci sono cinema, teatri, concerti, non ci sono passeggiate al centro della città o nei parchi e non possiamo andare a fare shopping.

Siamo stati costretti a vivere in uno spazio ridotto, improvvisamente, a volte condiviso con i nostri familiari o a volte in stato di completa solitudine. Tutto ciò richiederebbe la costruzione di nuovi modi di stare in equilibrio e nuove energie. E proprio in questo momento in cui abbiamo poche risorse e non abbiamo avuto il tempo materiale di costruirle, siamo costretti a gestire un’emozione che non conoscevamo, la paura del contagio, una paura di un nemico invisibile e reale.

A questo punto sarebbe importante che gli psicologi ricordassero ai nostri politici e scienziati che sentire e mantenere vigile una certa quota di ansia non solo è normale ma ci protegge dal pericolo di essere contagiati e contagiare, ci mette in allarme e ci protegge, ci aiuta ad essere motivati ad attuare tutte le misure preventive e cautelative che il Governo ci ha invitato a prendere. Ansia e paura ci aiutano a mantenere con la giusta attenzione la distanza dalle altre persone quando andiamo al supermercato, ad avere la pazienza di lavarci spesso le mani contando fino a venti, a non toccarci la bocca o gli occhi durante la giornata.

Probabilmente tutte le persone che hanno fatto fatica a rispettare le restrizioni non si erano rese conto, o non si rendono ancora conto, che siamo in pericolo e che è di vitale importanza rispettare tutti le restrizioni governative in modo serio. L’informazione serve anche a loro e soprattutto a loro per sentire il “giusto grado” di ansia che serve a ricordarci che è assolutamente necessario rimanere in casa.

In molti si chiedono come mai i governanti di altri Paesi hanno aspettato tanto tempo prima di chiudere scuole, bar, ristoranti e attività. La risposta è “non hanno sentito la “giusta” quota di paura”.  La menta umana tende ad evitare la sofferenza e volte cerca di contrastare automaticamente le paure. In certe condizioni evita di pensare al peggio, tende a minimizzare o addirittura a negare la realtà. “Qui non succederà”. Ma il virus colpisce soprattutto chi non ha la “giusta” paura e minimizza le conseguenze del rischio di contagio.

Davanti al leone 

Ma cosa significa avere il “giusto” livello di ansia in questa situazione? Possiamo provare a usare una convenzione. Se trovarci davanti a un leone in libertà ci può far provare una paura quantificabile in 100, una “giusta” intensità di ansia quando usciamo di casa in questi giorni potrebbe essere sentire un’ansia 20, cioè quel grado di ansia che ci permette di essere vigili e di ricordare di mantenere la distanza di sicurezza. Se siamo in casa soli, dove non c’è rischio di contagio, possiamo sentire anche un’ansia pari a 0,1, perché in casa siamo al sicuro. E se il pensiero torna a quello che sarebbe potuto succedere senza le restrizioni governative o con gli assembramenti, un “giusto” grado di ansia potrebbe arrivare anche a 100: è pericoloso per noi e per gli altri, dobbiamo applicare il distanziamento sociale!

E se stare in casa e leggere le notizie ci spaventa più del dovuto, possiamo sempre decidere di non leggere il giornale e di non vedere le informazioni televisive, o di ridurle a una o due volte al giorno, ricordandoci spesso che seguendo le disposizioni degli esperti e del governo, restando in casa, possiamo sentirci realisticamente al sicuro. Mantenerci impegnati, inoltre, ci aiuterà a tenere la mente nel presente e a evitare di andare dietro inutili e dannosi rimuginii catastrofici. E chi volesse allenare la propria capacità di rimanere con l’attenzione nel qui ed ora per non rimuginare e non ci riesce, può seguire delle meditazioni di mindfulness, che si possono trovare facilmente e gratuitamente sui canali youtube di alcuni centri di meditazione.

Il bollettino relativo al numero dei nuovi contagiati di cui viene a conoscenza il Servizio Sanitario Nazionale e la Protezione Civile, il numero dei pazienti dimessi e delle persone dolorosamente decedute potrebbe dunque avere una funzione sociale importante. Ci ricorda che non dobbiamo abbassare la guardia e mantiene attiva l’ansia che serve a costruire quel senso civico di protezione reciproca che tutti noi, soprattutto in questa situazione, dovremmo avere. Sentire la “giusta” quota di ansia ci ricorda ogni giorno che la situazione è seria e che non possiamo agire facendo finta che non lo sia.

Una comunicazione chiara da parte delle istituzioni e degli scienziati sui fatti del giorno, almeno quelli che arrivano al SSN, sembra a questo punto necessaria per poter avere quel “giusto” livello di ansia che ci tiene vigili. Sapere come stanno i fatti, permette di elaborare i cambiamenti delle nostre vite e ci consente di sviluppare le risorse emotive necessarie per affrontare quello che sta accadendo in queste ore o quello che purtroppo potrebbe ancora accadere. Le menti umane hanno bisogno della verità per elaborare le “perdite”, prevedere, riorganizzare i piani e accettare i cambiamenti.

Il giusto livello di ansia

Come potremmo accettare di stare chiusi in casa un altro mese se non avessimo un giusto livello  di ansia che ci segnala che è saggio seguire le indicazioni delle istituzioni? Come possono le persone accettare le possibili future ristrettezze economiche senza trovare una ragione in questa paura che giorno dopo giorno che ci segnala che siamo di fronte a una situazione di straordinaria emergenza? La nostra mente ha e avrà sempre di più bisogno di “memorie” legate alla paura di questi giorni per accettare questi cambiamenti.

La “giusta” quota di ansia ci serve a comprendere la situazione e ad accettare radicalmente questa difficile delimitazione della nostra libertà personale e tutto quello che potrebbe succedere. Perché dovremmo tollerare tutto questo se non per la paura del contagio per noi stessi e per i nostri cari?

Rimane il problema delle persone che soffrono di disturbi di ansia o di traumi pregressi, che in questa situazione di emergenza rischiano di avere un ulteriore aumento della intensità dell’ansia e un peggioramento dei sintomi ansiosi. In soggetti psicologicamente vulnerabili, la paura del Coronavirus potrebbe infatti far emergere vecchi traumi e vecchie fobie.

Cosa fare? Anche per queste persone è importante sapere la verità per costruire un “giusto” senso di realtà. Può essere utile ricordare loro più volte al giorno che se seguono le misure di restrizione raccomandate dai virologi e dal Governo e rimangono nelle loro case, non ci saranno conseguenze sulla loro salute e su quella dei loro i cari. È dunque importante ricordare ripetutamente a queste persone che per evitare il rischio di contagio è sufficiente evitare i contatti sociali.

Sulla stessa barca

Ma che fare se la paura eccessiva e irrazionale persiste? A quel punto potrebbe essere di aiuto rivolgersi a uno specialista. Quasi tutti gli psicoterapeuti, in questo momento, stanno svolgendo la loro attività professionale attraverso delle videochiamate dalle loro abitazioni o dai loro studi, per sostenere i loro pazienti da punto di vista psicologico e allo stesso tempo proteggerli dal rischio di contagio degli studi medici.

“Siamo tutti sulla stessa barca” affermava Marina Abramović nel manifesto che creato nel 2018 e affisso sulla facciata di Palazzo Strozzi durante la sua mostra, a Firenze. E forse questa nuova “livella” ci consola. E se la consapevolezza del pericolo per noi stessi e per i nostri cari ci aiuterà a rimanere nelle nostre abitazioni, potremmo preservarci l’un l’altro e potremmo sentirci presto al sicuro, lontano dalla tempesta. Sentirci sulla stessa barca ci avrà salvato e lo avremo fatto insieme.

di Elisabetta Pizzi, psicologa e psicoterapeuta

 

 

Vivere da soli aumenta il rischio di sviluppare disturbi mentali comuni

Vivere da soli è associato a disturbi mentali comuni, indipendentemente dall’età e dal sesso, secondo uno studio pubblicato sulla rivista Plos One. 

La percentuale di persone che vivono sole è aumentata negli ultimi anni a causa dell’invecchiamento della popolazione, della riduzione dei tassi matrimoniali e della fertilità. Precedenti studi hanno studiato il legame tra vivere da soli e disturbi mentali, ma sono stati generalmente condotti su popolazioni anziane e non sono generalizzabili per gli adulti più giovani.

Nel nuovo studio, i ricercatori hanno utilizzato i dati su 20.500 persone di età compresa tra 16 e 64 anni che vivono in Inghilterra e che hanno partecipato alle indagini sulla morbilità psichiatrica nazionale del 1993, 2000 o 2007. È stato valutato se una persona avesse un disturbo mentale comune (CMD) usando il Clinical Interview Schedule-Revised (CIS-R), un questionario incentrato sui sintomi nevrotici durante la settimana precedente. Oltre al numero di persone che vivono in una famiglia, erano disponibili dati su fattori quali peso e altezza, dipendenza da alcol, uso di droghe, supporto sociale e solitudine.

La prevalenza delle persone che vivevano sole nel 1993, 2000 e 2007 era dell’8,8%, del 9,8% e del 10,7%. In questi anni, i tassi di CMD erano del 14,1%, 16,3% e 16,4%. In tutti gli anni, tutte le età, sia uomini che donne, c’era un’associazione positiva tra vivere da soli e la CMD (1993 odds ratio 1.69; 2000 OR 1.63; 2007 OR 1.88). In diversi sottogruppi di persone, vivere da soli ha aumentato il rischio di una persona per la CMD da 1,39 a 2,43 volte. Nel complesso, la solitudine ha spiegato l’84% dell’associazione tra il vivere da soli e la CMD. Gli autori suggeriscono che gli interventi rivolti alla solitudine tra le persone che vivono sole possono essere particolarmente importanti per il benessere mentale di questa popolazione vulnerabile.

Studio di Louis Jacob dell’Università di Versailles Saint-Quentin-en-Yvelines, Francia, e colleghi. Da Neuroscience.com del 2 maggio 2019

Le emozioni andrebbero insegnate a scuola?

I nostri sentimenti irrisolti e non riconosciuti possono portarci ad ansia, discussioni e peggio ancora. Alcuni educatori credono che sia tempo di dare a i nostri figli istruzioni emotive insieme con l’ABC.

Chi vi ha insegnato a identificare e padroneggiare le vostre emozioni, come riconoscerle quando insorgono e a trovare la vostra strada attraverso di esse? Per molti adulti, la riposta è: nessuno. Vi siete fatti strada in quella foresta da soli. Sebbene attraversare il nostro paesaggio interiore non è qualcosa che ci hanno insegnato a scuola, dovrebbe invece esserlo, affermano numerosi ricercatori. Sono certi che le abilità emozionali dovrebbero figurare nell’educazione dei bambini allo stesso posto di riguardo di matematica, lettura, storia e scienza.

Perché le emozioni sono importanti? La ricerca ha dimostrato che le persone con abilità emotive sono più brave a scuola, hanno relazioni migliori e incorrono meno frequentemente in comportamenti dannosi per la salute. Inoltre dal momento che sempre più lavori vengono meccanizzati, le cosiddette soft skills – come tenacia, controllo dello stress e comunicazione – sono viste come un modo per rendere gli esseri umani non sostituibili dalle macchine. C’è stato un crescente impegno nelle scuole americane per insegnare l’apprendimento sociale ed emotivo (social and emotional learning – SEL), che però tende a enfatizzare abilità interpersonali come cooperazione e comunicazione.

Ai bambini si insegna spesso a ignorare o nascondere le proprie emozioni. Molte società occidentali vedono le emozioni come un capriccio o una distrazione, afferma Thomas Scheff, sociologo all’Università di California-Santa Barbara, uno dei promotori dell’educazione emotiva. Le nostre emozioni possono darci preziose informazioni sul mondo, ma spesso, a scuola o in società impariamo a non ascoltarle. Proprio com’è pericolosa, aggiunge Scheff, la pratica di nascondere un’emozione dietro a un’altra. Ha scoperto che in particolare gli uomini tendono a nascondere sentimenti di vergogna dietro ira, aggressività e, anche troppo spesso, violenza.

Dove trovare informazioni sull’insegnamento delle emozioni? Uno dei programmi scolastici più autorevoli è RULER, creato nel 2005 da Marc Brackett, David Caruso e Robin Stern dello Yale Center for Emotional Intelligence. Il programma pluriennale è usato da più di mille scuole, negli USA e in altri paesi.  Il nome RULER è un acronimo dei 5 obiettivi che si propone: riconoscere (recognizing) le emozioni in se stessi e negli altri; capire (understanding) le cause e le conseguenze delle emozioni; classificare (labeling) le esperienze emotive impiegando un vocabolario vario e accurato; esprimere e regolare (expressing, regulating) le emozioni in modo da promuovere la propria e altrui crescita.

In questo metodo, ai bambini si insegna a focalizzarsi sul tema sottostante un’emozione piuttosto che perdersi nel cercare una definizione: quando sei preso da un’emozione, spiega Robin Stern, capire i suoi contorni tematici può aiutare a darle un nome e a dominarla. Anche se persone diverse fra loro sperimentano differentemente la rabbia, il tema sottostante alla rabbia è lo stesso. È l’ingiustizia o la scorrettezza. Il tema invece sottostante alla delusione è un’attesa vanificata. Il tema sottostante alla frustrazione è sentirsi bloccati sulla strada verso il proprio obiettivo. Mettere a fuoco il tema “può aiutare una persona a essere vista e capita proprio dove essa è”, conclude Stern. 

Le lezioni secondo il metodo RULER attraversano tutte le classi e le materie: se, ad esempio, la parola in discussione è “euforico”, l’insegnante chiederà agli studenti di Storia di connettere “euforico” ai viaggi degli esploratori. I bambini sono invitati a chiedere ai loro genitori quando è stata l’ultima volta in cui si sono sentiti “euforici”. I ricercatori dello Yale Center for Emotional Intelligence hanno constatato che nelle scuole in cui si impiega il RULER si verificano meno fenomeni di bullismo, ansia e depressione, mentre gli studenti hanno maggiori capacità di leadership e voti più alti. Perciò, come mai l’educazione emotiva non è la norma invece che l’eccezione?

C’è un fatto sorprendente: mentre gli scienziati e gli educatori concordano sulla necessità di insegnare le emozioni, non concordano invece su quante sono e che cosa sono. La lista di RULER comprende centinaia di parole relative alle sensazioni, fra cui curioso, estatico, disperato, frustrato, geloso, sollevato e imbarazzato. Altri studiosi di emozioni ne classificano da due a undici. Scheff suggerisce agli studenti di cominciare con sei: dolore, paura, rabbia, orgoglio, vergogna e affaticamento.

Anche se si è cominciato a studiare la psicologia come scienza più di un secolo fa, finora si è incentrata maggiormente sull’identificazione e la cura dei disordini. Scheff, che ha passato anni a studiare un’emozione tabù – la vergogna – e il suo impatto distruttivo sulle azioni umane, ammette: “Non sappiamo molto sulle emozioni, anche se pensiamo il contrario, e questo vale sia per le persone comuni che per i ricercatori”. O, come disse in modo meraviglioso Virginia Woolf, “le strade di Londra hanno la loro mappa; ma le nostre passioni sono inesplorate”.

I genitori possono incoraggiare la consapevolezza emozionale dei loro figli con un semplice invito: “Parlami di qualcuno dei tuoi momenti più migliori”, una frase che Scheff usa per iniziare le discussioni con i suoi studenti universitari. Ma lui e Stern sono d’accordo che la scuola non può aspettare che gli accademici abbiano fatto la lista delle emozioni prima di agire. “Sappiamo che abbiamo emozioni tutto il giorno, che ne siamo consapevoli o no”, chiarisce Stern. Cominciamo dunque a insegnare ai bambini a cavalcare queste onde momento per momento, invece di esserne trascinati.