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Nessuno è normale

Sulle note di Creep dei Radiohead, uno straordinario film in stop motion girato dalla regista Catherine Prowse per l’ente benefico per bambini Childline che dimostra che nessuno è normale e che per quanto strano ti senta dentro non sei solo.

 

Società di produzione: Rowdy and Blink
Agenzia creativa: The Gate
Direttore della fotografia: George Warren
Animatori: Tim Allen e Tobias Fouracre
Puppet Builder: Adeena Grubb

Compassione per le voci: un racconto di coraggio e speranza

Un semplice ma efficace cortometraggio animato, nato nell’abito della “Compassion Focused Therapy”, su come affrontare le voci; il breve film si può impiegare anche come strumento terapeutico, educativo e de-stigmatizzante (con sottotitoli anche in italiano). Compassion dor Voices: a tale of courage and hope è un progetto del King’s College di Londra, animato da Kate Anderson.

Più dettagli su www.compassionforvoices.com.

 

Vivere da soli aumenta il rischio di sviluppare disturbi mentali comuni

Vivere da soli è associato a disturbi mentali comuni, indipendentemente dall’età e dal sesso, secondo uno studio pubblicato sulla rivista Plos One. 

La percentuale di persone che vivono sole è aumentata negli ultimi anni a causa dell’invecchiamento della popolazione, della riduzione dei tassi matrimoniali e della fertilità. Precedenti studi hanno studiato il legame tra vivere da soli e disturbi mentali, ma sono stati generalmente condotti su popolazioni anziane e non sono generalizzabili per gli adulti più giovani.

Nel nuovo studio, i ricercatori hanno utilizzato i dati su 20.500 persone di età compresa tra 16 e 64 anni che vivono in Inghilterra e che hanno partecipato alle indagini sulla morbilità psichiatrica nazionale del 1993, 2000 o 2007. È stato valutato se una persona avesse un disturbo mentale comune (CMD) usando il Clinical Interview Schedule-Revised (CIS-R), un questionario incentrato sui sintomi nevrotici durante la settimana precedente. Oltre al numero di persone che vivono in una famiglia, erano disponibili dati su fattori quali peso e altezza, dipendenza da alcol, uso di droghe, supporto sociale e solitudine.

La prevalenza delle persone che vivevano sole nel 1993, 2000 e 2007 era dell’8,8%, del 9,8% e del 10,7%. In questi anni, i tassi di CMD erano del 14,1%, 16,3% e 16,4%. In tutti gli anni, tutte le età, sia uomini che donne, c’era un’associazione positiva tra vivere da soli e la CMD (1993 odds ratio 1.69; 2000 OR 1.63; 2007 OR 1.88). In diversi sottogruppi di persone, vivere da soli ha aumentato il rischio di una persona per la CMD da 1,39 a 2,43 volte. Nel complesso, la solitudine ha spiegato l’84% dell’associazione tra il vivere da soli e la CMD. Gli autori suggeriscono che gli interventi rivolti alla solitudine tra le persone che vivono sole possono essere particolarmente importanti per il benessere mentale di questa popolazione vulnerabile.

Studio di Louis Jacob dell’Università di Versailles Saint-Quentin-en-Yvelines, Francia, e colleghi. Da Neuroscience.com del 2 maggio 2019

Che succede nel cervello quando disegniamo?

Passo molto del mio tempo libero a fare scarabocchi. Sono una giornalista ma, a tempo perso, anche un’artista, in particolare una fumettista. Disegno fra un impegno e l’altro, al caffè prima di andare al lavoro e mi piace sfidarmi a creare un piccolo magazine nei 20 minuti del mio viaggio in bus da pendolare. Lo faccio in parte perché è divertente e fa passare il tempo. Ma ho il sospetto che ci sia anche qualcosa di più profondo. Perché quando creo, sento che mi libera la testa. Mi aiuta a dare senso alle mie emozioni e in qualche modo, mi fa sentire più calma e rilassata. Perciò mi chiedo: che succede nel mio cervello quando disegno? Perché è così piacevole? E come posso portare altre persone – anche se non si considerano artisti – sul “treno della creatività”?  Ho scoperto che succedono un sacco di cose nella nostra mente e nel nostro corpo quando facciamo arte. “La creatività in sé stessa è importante per restare in salute e connessi con se stessi e con il mondo” dice Christianne Strang, docente di neuroscienze all’Università di Alabama Birmingham e già presidente dell’American Art Therapy Association. Questa idea vale per ogni tipo di espressione creativa visuale: disegno, pittura, collage, creta, poesia, decorazione di dolci, lavoro a maglia, album, non c’è alcun limite. “Qualsiasi cosa impegni creativamente la tua testa – creando connessioni fra cose lontane e immaginando nuovi modi di comunicare – è una cosa buona” aggiunge Girija Kaimal, professoressa alla Drexel University, ricercatrice in arte-terapia. Kaimal è convinta che l’arte è importante per tutti, non importa il livello di bravura, e che è qualcosa che si dovrebbe fare regolarmente, per vari motivi.

Aiuta a essere più fiduciosi nel futuro

La capacità dell’arte di modellare la nostra immaginazione può essere una delle ragioni per cui esiste da quando eravamo cavernicoli, chiarisce Kaimal. Probabilmente serve agli scopi dell’evoluzione. La sua teoria è che l’arte ci aiuti a superare i problemi che possono sorgere in futuro. Un’ipotesi che nasce dalle ultime ricerche, per le quali il cervello sarebbe una sorta di “macchina predittiva”. Il cervello usa cioè le informazioni per prevedere che cosa potremmo fare nell’immediato futuro e soprattutto che cosa è necessario fare nell’immediato futuro per sopravvivere e prosperare. Quando facciamo qualcosa di artistico prendiamo una serie di decisioni: che tipo di strumento usare, quale colore, come tradurre quello che vediamo su carta. E infine come interpretare un’immagine. Kaimal racconta di una sua studentessa di arte-terapia gravemente depressa: “Una volta prese un foglio e lo colorò tutto di nero con un grosso pennarello. Poi lo guardò per un po’ e disse ‘Wow, sembra davvero cupo e desolato’. Allora accadde qualcosa: si guardò intorno, afferrò della creta rosa e cominciò a fare… dei fiori. ‘Sai cosa? Mi ricorda la primavera’”. Durante quella sessione di arte, la studentessa era riuscita a immaginare delle possibilità e vedere un futuro al di là di un presente così disperato. “L’immaginazione è un atto di sopravvivenza” conclude Kaimal. “Ci prepara a immaginare possibilità e auspicabilmente a sopravvivere a esse”.

Attiva il centro della ricompensa nel cervello

Per molti l’arte può essere fonte di tensione: che posso fare? Che tipo di materiali devo usare? Se non ci riesco? E se poi fa schifo? “Gli studi dimostrano che, nonostante questi timori, impegnarsi in una qualsiasi espressione visuale attiva il centro della ricompensa nel cervello” spiega Kaimal “il che significa che ci fa sentire bene ed è percepita come un’esperienza piacevole”. Con un team di ricercatori Kaimal ha misurato il flusso di sangue nel centro della ricompensa nel cervello (la corteccia mediana prefrontale), in 26 volontari impegnati in tre attività artistiche: colorare un mandala, scarabocchiare e disegnare liberamente su un foglio bianco. Mentre i partecipanti compivano queste attività, i ricercatori hanno rilevato un incremento del flusso di sangue in questa parte del cervello. Secondo i suoi autori, questa ricerca suggerisce che l’attività artistica potrebbe recare benefici alle persone con determinati problemi, come le dipendenze e i disordini alimentari e dell’umore.

Abbassa lo stress

In un altro studio Kaimal ha misurato il livello di cortisolo (un ormone che aiuta a rispondere allo stress) di 39 adulti dopo 45 minuti di attività artistica, verificando che si era decisamente abbassato. E non c’è differenza fra coloro che si identificano come artisti esperti e gli altri, il che significa che il livello di competenza non ha importanza, i benefici si ottengono in ogni caso.

Favorisce la concentrazione

Inoltre, l’arte porta a quello che la comunità scientifica chiama “flusso”: “È come perdersi e perdere ogni consapevolezza. Sei così nel momento e completamente presente che dimentichi il senso del tempo e dello spazio”, dice ancora Kaimal.  “Attiva nel cervello varie reti fra cui la uno stato di rilassamento riflessivo, l’attenzione al compito e il senso di piacere”. Uno studio pubblicato nel 2018 su Frontiers in Psychology ha evidenziato che il flusso è caratterizzato da un’accresciuta attività delle onde teta nelle aree frontali del cervello e moderata attività delle onde alfa nelle aree frontali e centrali.

Che tipo di arte praticare?

Alcuni tipi di arte sembrano portare più benefici delle altre. Ad esempio modellare la creta, perché “coinvolge sia le mani che molte parti del cervello in esperienze sensoriali. Usare il senso del tatto, dello spazio a tre dimensioni, la vista, l’udito sembra recare più benefici”. Molti studi hanno dimostrato che colorare entro dei contorni – in particolare un disegno di mandala – è più efficace per l’umore che colorare su un foglio bianco o anche colorare una forma squadrata.

Aiuta a rielaborare le emozioni

Strang sottolinea che chi ha seri problemi mentali dovrebbe rivolgersi a un terapista professionale, ma che se si tratta solo di ritrovare la propria creatività, ridurre l’ansia e rafforzare le proprie capacità di adattamento ciascuno può fare a modo suo: basta lasciare che “linee, forme e colori traducano in immagini la tua esperienza emotiva”.

Le sue parole mi hanno fatto ripensare a tutte le volte che mi sono trovata a tirare fuori dalla borsa penna e quaderno, per esprimere come mi sentivo attraverso i miei disegni e le mie riflessioni: un’attività catartica, che mi dava sollievo. Mesi fa litigai con qualcuno. Il giorno dopo sull’autobus ci stavo ancora rimuginando. In preda alla frustrazione, ho tirato fuori il mio quaderno e ho scritto il vecchio adagio “non lasciare che il mondo ti renda duro”, ho stracciato con cura la pagina e l’ho attaccata sul sedile davanti, pensando: che sia un monito per tutti quelli che lo leggeranno. Ho fotografato il biglietto e l’ho postato su Instagram: quella notte, rivedendo la foto, ho capito per chi era il messaggio: era per me.

@Malaka Gharib su “KQED

Disturbo borderline: informazioni utili per i familiari

Inghiottiti dal vortice della sofferenza, i familiari di persone con disturbo borderline si trovano spesso ad affrontare da soli le situazioni più critiche.

Il disturbo borderline di personalità (DBP) è un disturbo caratterizzato da un’instabilità pervasiva nei rapporti interpersonali, un’instabilità nell’immagine di sé e una marcata impulsività. Chi ne è soffre mostra delle reazioni emotive molto intense che oscillano drammaticamente anche per motivi apparentemente poco importanti. Questi cambiamenti d’umore sono dovuti a una difficoltà biologica a regolare le proprie emozioni.

Vivere con una persona con DBP vuol dire vivere sulle montagne russe insieme a loro. I familiari di persone con disturbo borderline si trovano il più delle volte soli nelle situazioni più critiche.

Cosa può fare un familiare? 

Esistono oggi dei programmi per familiari di persone con disturbo borderline finalizzati a fornire informazioni e a sostenere chi ne ha bisogno. Uno di questi è la Family connection, una rete di familiari volontari che ha lo scopo di diffondere un protocollo di psicoeducazione per parenti e amici di persone con DBP. Da qualche anno ci sono gruppi di Family connections anche in Italia (http://borderline-italia.it).

Può inoltre rivolgersi a degli esperiti di questo disturbo specializzati in un trattamento psicoterapico che funzioni, ossia uno di quei trattamenti la cui efficacia è stata dimostrata scientificamente attraverso studi sperimentali randomizzati e controllati (Randomized Control Trials, RCTs). Nella realtà anglosassone gli approcci empiricamente validati sono indicati dalle Linee guida NICE (National Institute for Health and Care Excellence) un istituto che indica orientamenti e consigli basati sulla ricerca per coloro che forniscono e commissionano servizi sanitari, di salute pubblica e di assistenza sociale. In Italia c’è meno informazione.

I trattamenti più efficaci

Attualmente i trattamenti che risultano efficaci per la cura di questo disturbo sono quattro: il Mentalization Based Treatment (MBT) di Anthony Bateman e Peter Fonagy, la Transference Focused Psychotherapy (TFP) elaborata dal gruppo di ricerca e di clinica coordinato da Otto Kernberg, la Schema Focused Therapy (SFT) di Jeffrey Young e la Dialectical Behavior Therapy (DBT) di Marsha Linehan. Quest’ultimo è il trattamento scientifico per il DBP più diffuso nel mondo, probabilmente più generalizzabile e più studiato, con oltre 20 studi di ricerca condotti rispettano la “regola” della ricerca degli studi randomizzati controllati. Questi trattamenti incominciano ad essere diffusi anche in Italia.

Ci sono infine delle Linee guida per familiari, pubblicate dalla The New England Personality Disorder Association e usate all’interno del Programma di Gruppo Multifamiliare del Prof. John G. Gunderson, che sono tradotte in italiano e facilmente consultabili attraverso il sito americano di Family Connections. (http://www.borderlinepersonalitydisorder.com/wp-content/uploads/2016/01/GuidelinessItalian.pdf?x33828)

 

DBT, la terapia nata dalla sofferenza

Ricordando i giorni trascorsi nell’area di isolamento di un istituto psichiatrico americano, Marsha Linehan rivela: «Mi sentivo completamente vuota, come l’uomo di latta, e non capivo come mi stesse succedendo». All’epoca la Linehan non era ancora una famosa docente e terapeuta americana, né tantomeno una studiosa di fama internazionale. Era solo Marsha, un’adolescente affetta da disturbo borderline, alla quale era stata erroneamente diagnosticata una schizofrenia.

Da paziente a terapeuta. Nessuno meglio di chi ha provato l’inquietudine, la solitudine, la paura che accompagna il disturbo borderline, avrebbe potuto ideare una strategia per uscirne. Dopo la laurea Linehan passò anni a lavorare con pazienti che avevano tentato di porre fine al proprio dolore togliendosi la vita. Fu a quel punto che capì: la sofferenza è la chiave, per cambiare davvero bisogna accettarla.

Nasce la DBT. Molti anni dopo questa intuizione, l’ex paziente Marsha Linehan mise a punto un nuovo approccio terapeutico: la Dialectical Behavior Therapy. La DBT è un trattamento cognitivo-comportamentale pensato per la cura di persone con diagnosi di Disturbo Borderline e comportamenti cronicamente suicidari. Il rischio che questi pazienti si tolgano la vita è infatti molto alto, dieci volte superiore alla media della popolazione. La DBT si compone di tre elementi: un gruppo di skills training, finalizzato all’acquisizione di competenze per la regolazione di comportamenti disregolati; una terapia individuale; un servizio di coaching telefonico.

Lo skills training Letteralmente è l’“allenamento delle abilità”. Un po’ come succede in palestra, i pazienti si allenano a sviluppare strategie nuove per risolvere problemi vecchi. L’attività si svolge in piccoli gruppi, da un minimo di 3 a un massimo di 8 persone. Dura circa 6 mesi, con incontri settimanali da un’ora e mezza.

L’obiettivo principale è imparare a regolare le emozioni. Se il dolore per un rifiuto e per una parola fuori posto diventa sopportabile, la persona non avrà più bisogno di ricorrere ad alcol, droga o a pratiche di autolesionismo. Il primo step prevede l’insegnamento dell’abilità di mindfulness (consapevolezza).

Attraverso la meditazione il paziente impara a porre attenzione al presente, a controllare i pensieri e a “schivare” le critiche che rivolge a se stesso e agli altri. Inoltre sviluppa la capacità di accettare la realtà così com’è e di fare scelte sagge. In un secondo momento il partecipante allo skills training apprende a perseguire i propri desideri e obiettivi in maniera funzionale, vale a dire facendo in modo che questo non comporti la distruzione delle relazioni interpersonali.

Il terzo gruppo di abilità riguarda la regolazione delle emozioni: si allenano le capacità di osservare e di dare un nome ai propri stati d’animo. Si lavora sulla riduzione della vulnerabilità emotiva, sulla gestione delle emozioni negative e sul potenziamento delle emozioni positive.

Questo non vuol dire, però, che dolore e sofferenza non torneranno. Per questa ragione, le ultime abilità riguardano la tolleranza. Combattere e rinnegare la sofferenza spesso la rende solo più acuta. Tollerarla invece è parte integrante del tentativo di accettare se stessi o la situazione fonte di dolore. Senza accettazione è impossibile passare a strategie di cambiamento e di soluzione dei problemi.

La terapia individuale. La DBT prevede che al percorso in gruppo si affianchi quello individuale. Il rapporto che il paziente instaura con il terapeuta mira a tenere alta la motivazione e ad applicare le competenze acquisite alle sfide della vita quotidiana.

Il coaching telefonico. E se lo stress acuto arriva di domenica pomeriggio o alle otto di sera? Il trattamento prevede la possibilità di contattare il terapeuta per fronteggiare momenti particolarmente critici che si presentano nella vita quotidiana (ad esempio gli impulsi suicidari).

«Sei una di noi?» È questo che una paziente di Marsha Linehan voleva sapere dalla sua terapeuta. «Se tu lo fossi daresti a noi una grande speranza». Fu quella la prima volta in cui la madre della DBT raccontò pubblicamente di soffrire anche lei di disturbo borderline.

«Onestamente, nel periodo passato all’istituto psichiatrico non realizzavo che stavo combattendo contro me stessa. Ma è probabilmente vero che ho sviluppato una terapia che fornisce ciò di cui io ho avuto bisogno per molti anni e che non ho mai ricevuto».

 

Nuove speranze per la diagnosi del disturbo dissociativo dell’identità

Una recente ricerca finanziata dal NIHR (Maudsley Biomedical Research) Centre e pubblicata su The British Journal of Psychiatry, ha mostrato come sia possibile distinguere tra individui con Disturbo dissociativo dell’identità (DID) e individui sani, sulla base della loro struttura cerebrale, attraverso avanzate tecniche di neuroimaging (fra cui la risonanza magnetica funzionale – fMRI, e la tomografia a emissione di positroni – PET).

I ricercatori hanno eseguito scansioni cerebrali MRI  su 75 partecipanti allo studio, tutti di sesso femminile – 32 con diagnosi di DID confermate in modo indipendente –  e 43 controlli sani. I due gruppi sono stati accuratamente abbinati per caratteristiche demografiche quali l’età,  gli anni di istruzione e le origini. I ricercatori sono stati in grado di distinguere i due gruppi con una precisione complessiva del 73%, significativamente superiore al livello di precisione che ci si aspetterebbe basandosi sulla probabilità. Si tratta del primo studio che dimostra che gli individui con DID possono essere distinti dagli individui sani sulla base della loro struttura cerebrale.

Il DID, precedentemente noto come “disturbo di personalità multipla”, è uno dei disturbi della salute mentale più discussi e controversi, con gravi problemi nell’identificazione della diagnosi e di diagnosi errate. Molti pazienti con DID condividono una storia di anni di diagnosi errate, di trattamenti farmacologici inefficienti e di numerosi ricoveri.

È il più grave tra tutti i disturbi dissociativi, e implica stati di identità multipli e amnesia ricorrente. I disturbi dissociativi possono insorgere quando la dissociazione viene impiegata come modo per sopravvivere a traumi complessi e prolungati durante l’infanzia, quando il cervello e la personalità sono ancora in via di sviluppo.

La Dottoressa Simone Reinders del King’s College di Londra è stata alla guida del progetto che ha coinvolto due centri olandesi, il Centro medico universitario di Groningen e il Centro medico di Amsterdam, e uno della Svizzera, l’ospedale universitario di Zurigo. Commentando i dati emersi, Reinders ha affermato: “La diagnosi DID è controversa e gli individui con DID sono spesso diagnosticati in modo sbagliato. Dal momento della ricerca del trattamento dei sintomi, fino al momento di un’accurata diagnosi di DID, gli individui ricevono in media quattro diagnosi errate e trascorrono sette anni in servizi di salute mentale. I risultati del nostro studio sono importanti perché forniscono una prima prova dell’esistenza di una base biologica per la distinzione tra individui con DID e individui sani. In definitiva, l’applicazione di tecniche di riconoscimento dei modelli potrebbe prevenire sofferenze inutili grazie a diagnosi precoci e più accurate, facilitando interventi terapeutici più rapidi e mirati”.

Le terapie psicologiche sono tutte efficaci? Non chiedere al Dodo

“Tutti hanno vinto e tutti devono avere un premio”, dichiara il Dodo ad Alice nel Paese delle Meraviglie quando gli si chiede di stabilire il vincitore di una gara intorno a un lago. Ma nel mondo della salute mentale il verdetto del Dodo simboleggia da sempre un’aspra disputa che va al cuore stesso della psicoterapia.

Il Dodo Bird Verdict, suggerito per la prima volta negli anni ’30 dallo psicologo americano Saul Rosenzweig, sostiene che le varie forme di terapia psicologica siano tutte ugualmente efficaci. Non fa alcuna differenza se, ad esempio, una persona viene trattata con tecniche tratte dalla psicoanalisi, dalla programmazione neurolinguistica o dalla terapia cognitivo comportamentale (CBT). Ciò che aiuta veramente un paziente a recuperare sono fattori semplici come la possibilità di discutere le proprie preoccupazioni con un terapista esperto e comprensivo o il livello di impegno che è disposto a mettere in campo durante il trattamento.

Comprensibilmente, il Dodo Bird Verdict ha fatto arruffare molte piume all’interno della professione e stimolato  una serie di studi volti a confermare o a confutarne l’idea. Alcuni tipi di psicoterapia sono davvero più efficaci di altri per particolari condizioni? Esistono numerosi dati che suggeriscono che la risposta a questa domanda – contrariamente alla teoria di Rosenzweig – sia “sì”. Ma quei dati provengono in genere dalla ricerca condotta dai sostenitori della terapia ritenuta apparentemente superiore e gli scettici ritengono che le loro conclusioni non siano imparziali.

Prendiamo ad esempio la bulimia, che è un fenomeno relativamente comune. Un vasto studio americano ha scoperto che quasi l’1% degli adolescenti di età compresa tra 13 e 18 anni sperimenta questa condizione a un certo punto della loro vita. Molti di questi adolescenti hanno riferito che la malattia rendeva loro molto difficile avere una vita normale e che ha compromesso le loro relazioni familiari e con gli amici. Lo studio ha anche scoperto che gli adolescenti con bulimia avevano maggiori probabilità di prendere in considerazione o addirittura di tentare il suicidio.

Data l’ampia diffusione della bulimia e le sue conseguenze potenzialmente disastrose, è fondamentale capire quali trattamenti funzionino meglio, motivo per cui i ricercatori dell’Università di Copenaghen hanno recentemente confrontato l’efficacia di due psicoterapie popolari: la CBT e la psicoanalisi. I risultati sono davvero notevoli.

Durante lo studio, 70 pazienti con bulimia nervosa sono stati sottoposti, in modo casuale, o a due anni di terapia psicoanalitica settimanale o a 20 sessioni di CBT distribuite in cinque mesi. Alla base dell’approccio psicoanalitico c’è l’idea che il comportamento bulimico rappresenti un tentativo di controllare sentimenti e desideri problematici. Il terapeuta aiuta il cliente a parlare di questi sentimenti sepolti e a capire come sono collegati alla bulimia. Quando l’individuo impara ad accettare e gestire i propri desideri più profondi, l’angoscia scompare e con essa i sintomi della bulimia.

La terapia cognitivo comportamentale (CTB), invece, è mirata ai sintomi stessi: l’obiettivo è quello di fermare il binge eating (l’abbuffata compulsiva) il più rapidamente possibile. I terapeuti della CBT ritengono che la bulimia sia indotta dal fatto che  il bulimico è convinto che il suo livello di autostima dipende dalle sue abitudini alimentari, dal suo aspetto e dal suo peso. I terapeuti mostrano all’individuo come identificare e contrastare tali convinzioni, gli spiegano il ciclo del binge eating e gli propongono modelli alimentari regolari e una serie più flessibile e realistica delle linee guida dietetiche. Lavorano con il paziente per trovare piani efficaci per affrontare i momenti nei quali il pericolo di una ricaduta nel binge eating diventa più probabile e per ridurne al minimo le probabilità.

Pur avendo ricevuto, i partecipanti allo studio danese, quantità di trattamento enormemente disuguali per un periodo di tempo prolungato – dove quelli sottoposti a psicoanalisi vedevano il loro terapeuta molto più di quelli assegnati alla CBT – la CBT si è dimostrata più efficace. Dopo cinque mesi, il 42% del gruppo CBT aveva smesso di mangiare e spurgare; solo il 6% quelli che si erano sottoposti a psicoanalisi. Dopo due anni, la percentuale del gruppo di psicoanalisi che aveva debellato la bulimia era salita al 15%. Ma questo dato, ottenuto dopo due anni, era ancora molto lontano dal successo raggiunto dal gruppo  affidato alla CBT (44%) e nonostante fossero ormai passati 19 mesi dalla fine del trattamento.

L’esperimento danese offre concreti motivi di speranza: sembra che la CBT possa apportare importanti miglioramenti a molte persone affette da bulimia. Ma il significato dello studio va ben oltre, perché gli autori, Stig Poulsen e Susanne Lunn, non sono specialisti della CBT ma psicoanalisti di grande esperienza. In effetti, non solo la ricerca è stata condotta in una clinica dedicata alla psicoanalisi, ma il corso del trattamento è stato sviluppato dagli stessi Poulsen e Lunn.

Nonostante tutto, la CBT è risultata facilmente vincente. Come ha commentato un editoriale nell’American Journal of Psychiatry: “Plaudiamo al candore degli studiosi per essere stati così schietti nella presentazione dei risultati. Questo non può essere stato ciò che speravano di trovare e in effetti non è ciò che avevano ipotizzato.

Quindi, quando si tratta di psicoterapia, sembra che il Dodo si sbagli. Inoltre, se i trattamenti a breve termine possono produrre risultati simili per alcune malattie, come la depressione, non dovremmo presumere che il tipo di terapia che i pazienti ricevono sia essenzialmente insignificante. Dobbiamo invece riconoscere che alcune terapie sono migliori di altre in determinate condizioni. Dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi per identificarle e migliorarle e per garantire che le terapie più efficaci siano disponibili per tutti coloro che ne hanno bisogno.

Daniel Freeman è professore di psicologia clinica e ricercatore presso il dipartimento di ricerca medica presso il dipartimento di psichiatria dell’Università di Oxford.

Jason Freeman è uno scrittore di psicologia.

Su Twitter sono @ProfDFreeman e @ JasonFreeman100.

Sono gli autori di The Stressed Sex: Uncovering the Truth about Men, Women, and Mental Health

Le emozioni andrebbero insegnate a scuola?

I nostri sentimenti irrisolti e non riconosciuti possono portarci ad ansia, discussioni e peggio ancora. Alcuni educatori credono che sia tempo di dare a i nostri figli istruzioni emotive insieme con l’ABC.

Chi vi ha insegnato a identificare e padroneggiare le vostre emozioni, come riconoscerle quando insorgono e a trovare la vostra strada attraverso di esse? Per molti adulti, la riposta è: nessuno. Vi siete fatti strada in quella foresta da soli. Sebbene attraversare il nostro paesaggio interiore non è qualcosa che ci hanno insegnato a scuola, dovrebbe invece esserlo, affermano numerosi ricercatori. Sono certi che le abilità emozionali dovrebbero figurare nell’educazione dei bambini allo stesso posto di riguardo di matematica, lettura, storia e scienza.

Perché le emozioni sono importanti? La ricerca ha dimostrato che le persone con abilità emotive sono più brave a scuola, hanno relazioni migliori e incorrono meno frequentemente in comportamenti dannosi per la salute. Inoltre dal momento che sempre più lavori vengono meccanizzati, le cosiddette soft skills – come tenacia, controllo dello stress e comunicazione – sono viste come un modo per rendere gli esseri umani non sostituibili dalle macchine. C’è stato un crescente impegno nelle scuole americane per insegnare l’apprendimento sociale ed emotivo (social and emotional learning – SEL), che però tende a enfatizzare abilità interpersonali come cooperazione e comunicazione.

Ai bambini si insegna spesso a ignorare o nascondere le proprie emozioni. Molte società occidentali vedono le emozioni come un capriccio o una distrazione, afferma Thomas Scheff, sociologo all’Università di California-Santa Barbara, uno dei promotori dell’educazione emotiva. Le nostre emozioni possono darci preziose informazioni sul mondo, ma spesso, a scuola o in società impariamo a non ascoltarle. Proprio com’è pericolosa, aggiunge Scheff, la pratica di nascondere un’emozione dietro a un’altra. Ha scoperto che in particolare gli uomini tendono a nascondere sentimenti di vergogna dietro ira, aggressività e, anche troppo spesso, violenza.

Dove trovare informazioni sull’insegnamento delle emozioni? Uno dei programmi scolastici più autorevoli è RULER, creato nel 2005 da Marc Brackett, David Caruso e Robin Stern dello Yale Center for Emotional Intelligence. Il programma pluriennale è usato da più di mille scuole, negli USA e in altri paesi.  Il nome RULER è un acronimo dei 5 obiettivi che si propone: riconoscere (recognizing) le emozioni in se stessi e negli altri; capire (understanding) le cause e le conseguenze delle emozioni; classificare (labeling) le esperienze emotive impiegando un vocabolario vario e accurato; esprimere e regolare (expressing, regulating) le emozioni in modo da promuovere la propria e altrui crescita.

In questo metodo, ai bambini si insegna a focalizzarsi sul tema sottostante un’emozione piuttosto che perdersi nel cercare una definizione: quando sei preso da un’emozione, spiega Robin Stern, capire i suoi contorni tematici può aiutare a darle un nome e a dominarla. Anche se persone diverse fra loro sperimentano differentemente la rabbia, il tema sottostante alla rabbia è lo stesso. È l’ingiustizia o la scorrettezza. Il tema invece sottostante alla delusione è un’attesa vanificata. Il tema sottostante alla frustrazione è sentirsi bloccati sulla strada verso il proprio obiettivo. Mettere a fuoco il tema “può aiutare una persona a essere vista e capita proprio dove essa è”, conclude Stern. 

Le lezioni secondo il metodo RULER attraversano tutte le classi e le materie: se, ad esempio, la parola in discussione è “euforico”, l’insegnante chiederà agli studenti di Storia di connettere “euforico” ai viaggi degli esploratori. I bambini sono invitati a chiedere ai loro genitori quando è stata l’ultima volta in cui si sono sentiti “euforici”. I ricercatori dello Yale Center for Emotional Intelligence hanno constatato che nelle scuole in cui si impiega il RULER si verificano meno fenomeni di bullismo, ansia e depressione, mentre gli studenti hanno maggiori capacità di leadership e voti più alti. Perciò, come mai l’educazione emotiva non è la norma invece che l’eccezione?

C’è un fatto sorprendente: mentre gli scienziati e gli educatori concordano sulla necessità di insegnare le emozioni, non concordano invece su quante sono e che cosa sono. La lista di RULER comprende centinaia di parole relative alle sensazioni, fra cui curioso, estatico, disperato, frustrato, geloso, sollevato e imbarazzato. Altri studiosi di emozioni ne classificano da due a undici. Scheff suggerisce agli studenti di cominciare con sei: dolore, paura, rabbia, orgoglio, vergogna e affaticamento.

Anche se si è cominciato a studiare la psicologia come scienza più di un secolo fa, finora si è incentrata maggiormente sull’identificazione e la cura dei disordini. Scheff, che ha passato anni a studiare un’emozione tabù – la vergogna – e il suo impatto distruttivo sulle azioni umane, ammette: “Non sappiamo molto sulle emozioni, anche se pensiamo il contrario, e questo vale sia per le persone comuni che per i ricercatori”. O, come disse in modo meraviglioso Virginia Woolf, “le strade di Londra hanno la loro mappa; ma le nostre passioni sono inesplorate”.

I genitori possono incoraggiare la consapevolezza emozionale dei loro figli con un semplice invito: “Parlami di qualcuno dei tuoi momenti più migliori”, una frase che Scheff usa per iniziare le discussioni con i suoi studenti universitari. Ma lui e Stern sono d’accordo che la scuola non può aspettare che gli accademici abbiano fatto la lista delle emozioni prima di agire. “Sappiamo che abbiamo emozioni tutto il giorno, che ne siamo consapevoli o no”, chiarisce Stern. Cominciamo dunque a insegnare ai bambini a cavalcare queste onde momento per momento, invece di esserne trascinati.

 

 

 

Quando l’amore non è amore

Gli psicologi sostengono che una relazione romantica stabile sia il pilastro assoluto della felicità e di un generale benessere degli esseri umani. Ma l’amore può portare anche allo sviluppo di depressioni cliniche e tentativi di suicidio. Quando l’amore è un problema psicologico e per quale motivo lo diventa?

Nessun’altra esperienza umana sembra incidere così tanto sulla vita delle persone come l’innamoramento. Per amore un uomo può decidere di sposare una donna con dei figli e accettare di svolgere la funzione di padre, anche se non aveva mai pensato prima di vivere con dei bambini. Oppure può improvvisamente cambiare religione, città, paese: per influenza dell’innamoramento le persone fanno cose che non hanno mai pensato di fare. Ma cosa sappiamo riguardo all’amore? «Dopo trent’anni di studi clinici ed esperimenti abbiamo un fiume di conoscenze nuove sull’amore», sostiene Sue Johnson, autrice di Love sense.

Prima di tutto sappiamo che nella specie umana l’innamoramento e l’amore sono fasi completamente diverse, legate a bisogni differenti. L’innamoramento è un meccanismo ancestrale che, da un punto di vista evolutivo e biochimico, ha solo la funzione di avvicinare due individui per portarli all’accoppiamento. È un legame di dipendenza che si è evoluto dai nostri antenati per promuovere il legame di coppia e la riproduzione tra gli esseri umani ed è esclusivamente finalizzato alla continuità della specie umana. L’amore tra due individui, invece, ha la funzione di garantire stabilità al nucleo familiare, necessaria all’accudimento dei piccoli e alla loro crescita ed è determinato dalla cultura e dall’apprendimento più che dalla natura.

Amore e innamoramento hanno dunque anche meccanismi biochimici differenti. Espressioni quali “Ho perso la testa”, “Non riesco a pensare ad altro”, “È una droga” ci segnalano una condizione davvero peculiare legata all’innamoramento. L’eccitazione fisiologica e sessuale, il bisogno costante e impellente dell’altro, la sensazione di felicità, sono tutti meccanismi tipici di questa fase che si attivano quando nel nostro corpo sono presenti dosi massicce di dopamina, noradrenalina e feniletilammina. Questi meccanismi biochimici e psicologici rendono l’innamoramento molto simile alla dipendenza da droghe e sono infatti gli stessi neurotrasmettitori che si attivano in soggetti che soffrono di una dipendenza da sostanze. Ma la presenza di questi neurotrasmettitori nel corpo non durerà per sempre (dura circa 1 anno/18 mesi, al massimo fino a 3 anni) e lasceranno molto presto spazio a sostanze meno “eccitanti” che, però, garantiscono stabilità al rapporto nel tempo. Le sostanze in questione sono ossitocina per la donna e vasopressina per l’uomo, i quali rappresentano i correlati biochimici di stati d’animo quali l’affetto, una gioia pacata e diffusa legata alla presenza dell’altro, calore interno, senso di dedizione e cura per l’altro e vengono attivati dall’abbraccio e dalle carezze.

Ma l’innamoramento non sempre porta alla formazione di una coppia stabile nel tempo e può avere anche un impatto negativo sulla vita degli individui e sulla società. Quando questa sensazione di amore romantico non è corrisposta può provocare stati di profondo dolore e disperazione. Alcune persone soffrono ma riescono a gestire il distacco da un amore non corrisposto e ad allontanarsi, oppure a lasciare il partner in caso di maltrattamento. Per altre, invece, questo distacco può essere così difficile da provocare depressioni cliniche, comportamenti di stalking, tentativi di suicidio, omicidi e altri crimini di passione. Altre ancora rimangono incastrate in rapporti maltrattanti per anni, a volte per una vita intera. Chi presenta questo tipo di problemi solitamente ha storie pregresse di traumi legati alla affettività (gravi traumi dell’attaccamento o trascuratezza) o problemi di regolazione delle emozioni dovuti a una predisposizione genetica e a un ambiente percepito come “ostile”.

Ma come distinguere l’amore maturo da queste forme di amore distruttivo?

Robin Norwood, nel suo famoso libro di autoaiuto Donne che amano troppo, spiega la differenza. L’amore maturo nutre la persona ed è finalizzato alla costruzione di una coppia che si aiuta e si sostiene. È basato sul volersi bene, sulla condivisione di valori e progetti, sulla fiducia e sul rispetto reciproco. Il sentimento di amore maturo, dunque, è la base su cui si costruisce la stabilità di una coppia ed è prima di tutto un sentimento di reciprocità. Senza reciprocità non è un vero sentimento di amore.

E poi c’è l’amore che distrugge: nel suo volume la Norwood racconta molte storie di donne che si sono ammalate fisicamente e mentalmente a causa di un amore eccessivo nei confronti dei loro partner maltrattanti.

 In termini di esperienza emotiva, queste due forme di “amore” non sono facilmente distinguibili tra loro. Le sensazioni interne sono le stesse e possono confonderci: un impulso irrefrenabile ad andare verso la persona “amata”, a voler stare con lui/lei a tutti i costi, un’intensa gioia nel vederla, euforia, affetto, senso di calore e di pienezza, attrazione sessuale. Valutare l’intensità del sentimento, inoltre, non aiuta ma può ingannare ancora di più. Nel caso dell’amore maltrattante, infatti, queste sensazioni emotive possono essere anche più intense, perché alimentate da bisogni mai soddisfatti, e hanno per questo un forte senso di veridicità. Ma in realtà sono sensazioni che non hanno alcuna corrispondenza sul piano relazionale. Quello che succede a una persona “maltrattata”, quindi, è molto simile a quello che succede a chi ha un attacco di panico e pensa di avere un infarto. Chi ha il disturbo di panico, nel momento più acuto, crede davvero di avere un infarto o un ictus o di impazzire, ne è assolutamente convinto. Può andare al pronto soccorso, allarmando familiari e medici rispetto alla gravità della sua condizione, senza alcuna corrispondenza con la realtà dei fatti. In questo caso è solo una sensazione interna, così intensa da sembrare vera. Allo stesso modo chi è soggetto a forme di amore distruttivo crede davvero di amare la persona oggetto delle sue attenzioni, senza avere la consapevolezza del problema psicologico che è alla base di quella sensazione.

Robin Norwood ci spiega chiaramente come riconoscere questa forma di amore ingannevole che lei definisce “amare troppo”. E scrive: «Quando essere innamorati significa stare male, stiamo amando troppo. Quando giustifichiamo i suoi malumori, il suo cattivo carattere, la sua indifferenza o li consideriamo conseguenze di un’infanzia infelice, stiamo amando troppo. Quando mettiamo a repentaglio il nostro benessere, la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo amando decisamente troppo».

Chi ama troppo, quindi, ha una forma di vuoto/bisogno affettivo o bisogno d’innamoramento così forte da sviluppare una vera e propria dipendenza da queste sensazioni euforizzanti, tanto è vero che gli studi di neuroimmagine dicono che, nei momenti di eccitazione, nel cervello di queste persone si attivano le stesse zone di chi abusa di cocaina.

Oggi in letteratura ci sono vari nomi che indicano questo costrutto psicologico: dipendenza affettiva (nome usato anche dalla Norwood), love addiction, codipendenza, dipendenza relazionale. Marsha Linehan, professore di psicologia all’università di Washington e da molti considerata la più grande studiosa di problemi di regolazione delle emozioni, usa il termine amore non giustificato dai fatti, ossia un’emozione di amore che, come l’attacco di panico, non ha alcuna corrispondenza con la realtà esterna e che è quindi solo dovuta alla difficoltà della mente di regolare in modo appropriato il proprio bisogno di affettività. E nei suoi workshop afferma: «L’innamoramento può essere uno stato problematico delle persone che hanno emozioni forti e non sanno come regolarle e va trattato come un problema da risolvere».

Cosa fare? A oggi non ci sono cure con prove di efficacia (trattamenti evidence-based) specifici per questo problema. Tuttavia trattandosi di problemi legati alla regolazione della sfera emozionale, tipici di persone con storie affettive traumatiche, gli approcci di psicoterapia efficaci potrebbero essere quelli finalizzati alla regolazione delle emozioni, come la DBT e le altre terapie evidence-based per il disturbo borderline di personalità che hanno come focus la mentalizzazione (come la terapia basata sulla mentalizzazione di Bateman e Fonagy o la terapia metacognitivo-interpersonale MIT), o le terapie specifiche per la cura dei traumi come l’EMDR o la sensorimotor. Altri trattamenti utili potrebbero essere, inoltre, le terapie basate sulla mindfulness, come l’ACT e la compassion focus therapy, in quanto sviluppano l’accettazione e riducono la reattività emotiva. Ma la somiglianza neurale con le dipendenze da sostanza ci fa ben sperare e presto potremmo avere psicoterapie specifiche anche per questo tipo di sofferenza.