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Posts published in “Testimonianze”

Che cos’è l’empatia (e perché è molto diversa dalla simpatia)

L’empatia fa nascere una connessione, un legame fra le persone, mentre la simpatia porta a disconnettersi dagli altri. In questo bellissimo corto animato prodotto dall’inglese RSA (Royal Society of Arts) la dottoressa Brené Brown spiega come si può imparare a essere più empatici e perché è così importante.

Con la “fiaba” dell’orso, della volpe e del cervo Brené Brown ci ricorda che possiamo creare una connessione empatica vera solo se siamo abbastanza coraggiosi da metterci in contatto con le nostre fragilità. Del resto, qual è il modo migliore per alleviare le sofferenze di un’altra persona, un familiare, un amico o un semplice conoscente? “La verità è che raramente una risposta può migliorare le cose, ciò che davvero può essere d’aiuto è la connessione fra le persone”, risponde Brown.  

Brené Brown è una ricercatrice, professoressa e autrice del libro Osare in grande. Come il coraggio della vulnerabilità trasforma la nostra vita in famiglia, in amore e sul posto di lavoro (edizioni Ultra, 2013). È conosciuta per i suoi studi, oltre che sull’empatia, sulla vulnerabilità, il coraggio, il merito e la vergogna.  

Voce: Brené Brown; Animazioni: Katy Davis (Gobblynne) www.gobblynne.com; Produzione: Al Francis-Sears e Abi Stephenson

Anche solo per cinque minuti: la storia di Andrea

Disturbo borderline della personalità: sono parole che fanno pensare a un forte disagio mentale e suggeriscono l’immagine di una persona in gravi difficoltà. Io vorrei raccontarvi molto semplicemente la mia esperienza di paziente.

Un bambino e un adolescente irrequieto

Sin da bambino frequentavo gli psicologi infantili: a scuola ero disattento e molto irrequieto, tanto che mi fecero fare il test per il disturbo dell’attenzione, ma i risultati non evidenziarono nulla in particolare. A mio padre dissero che l’irrequietezza poteva essere causata da circostanze ambientali di forte stress: ho avuto un’infanzia dolorosa e difficile, la famiglia dal lato di mia madre è sempre stata disfunzionale, complessa, con relazioni conflittuali molto violente.

Quando poi arrivai all’adolescenza iniziai a soffrire intensamente di disturbi depressivi che si riflettevano anche nella sfera psicosomatica. Avevo forti mal di testa, difficoltà respiratorie (dispnea) e nausea. Erano sensazioni di malessere che portavo con me costantemente, anche a scuola e nella vita di tutti i giorni. Iniziai un primo approccio psicoterapeutico che però abbandonai presto: era troppo difficile per me all’epoca affrontare quel disagio così profondo.

Spesso quando parlo del mio disturbo all’esterno, specie se a persone non adeguatamente informate in materia, mi rendo conto che molti credono che essere borderline significhi avere una personalità multipla o essere una persona in qualche modo fuori controllo. La verità è che per gran parte della mia vita avrei voluto solo essere trattato come chiunque altro e questo purtroppo non sempre è avvenuto: avevo crisi di rabbia e profondi malesseri che nel mondo esterno erano negati o rifiutati, con la conseguenza di aggravare il problema anziché risolverlo. Per questa ragione ho dovuto lottare molto per far rispettare il mio disagio, spesso in un contesto sociale che raramente ancora oggi riconosce le difficoltà per quello che sono, senza giudicare.

Da adolescente mi affascinava il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer che vedeva l’esistenza umana come un’oscillazione continua fra noia e sofferenza, e sosteneva che il piacere fosse l’assenza del dolore. Un altro scrittore che negli anni mi ha molto colpito è stato il poeta tedesco Novalis, per il quale «bisognerebbe essere orgogliosi del proprio dolore, ogni dolore ci rammenta il nostro alto livello», e sono assolutamente d’accordo, perché ricordiamoci che il nostro malessere è l’espressione di un’elevata attitudine creativa e sensibilità. Sin da bambino ero infatti molto creativo, a otto anni iniziai a suonare il pianoforte e ora sono un musicista. Si può dire che la musica e la poesia mi abbiano davvero salvato la vita. Per questo motivo tanti di noi che stanno male per disturbi depressivi a mio parere di paziente dovrebbero provare, senza giudizio ed eccessiva competizione, a incanalare le loro risorse in attività costruttive che possano dar loro un po’ di soddisfazione personale. L’ansia, la paura, la rabbia sono tutte manifestazioni della nostra energia interiore, della spinta alla sopravvivenza che ci mantiene legati all’esistere.

La terapia: un lavoro di alti e bassi, traguardi e delusioni

A vent’anni ebbi le prime crisi di panico, facevo dentro e fuori dagli ospedali, convinto ogni volta come la prima di essere in fin di vita, tormentato dal senso di colpa per non riuscire a migliorare le mie condizioni. Furono però proprio queste crisi a farmi riprendere la psicoterapia che avevo interrotto. Inizialmente mi sentivo sotto esame e spesso avevo la sensazione che la cura non funzionasse, anche perché in famiglia ricevevo spesso svalutazioni rispetto a me stesso e alla terapia; solo con molta fatica sono riuscito nel tempo ad aiutare le persone intorno a me, e specialmente me stesso, a riconoscere il mio malessere senza condannarlo. Perciò senza timore dobbiamo a ogni costo cercare di sopravvivere al dolore, perché quella sofferenza ci sta parlando e sta raccontando la nostra storia e i nostri bisogni primari di esseri umani. Non stiamo decidendo di abbandonare la depressione, ma di farla nostra, raggiungendo una consapevolezza di noi stessi tale da permetterci di migliorare la qualità della nostra vita. Questo, infatti, è ciò che ho raggiunto dopo tanti anni di terapia: è stato un lavoro di alti e bassi, grandi traguardi e delusioni, sofferenza ma anche tanta creatività.

Le risorse nascoste dentro

Potrei dire che ormai sono anche un po’ affezionato a quel magone che sento alla bocca dello stomaco, sono quasi affascinato dalla mia inquietudine. Potrà sembrare qualcosa di ambiguo, ma è stato il modo con cui personalmente sono riuscito a stare meglio. Lo scopo della mia vita è diventato guardare avanti, rimanendo legato al momento presente e sopravvivere senza dimenticare l’amore per me stesso. Tutti, con un po’ di lavoro su di noi, possiamo scoprire di avere delle risorse nascoste dentro, come la nostra stessa sofferenza, forse la più grande forza che abbiamo, quella che ci permette di lottare, vincendo ogni giorno una nuova piccola battaglia, fino alla fine della guerra. Quando stavo molto male, per aiutarmi a stare meglio mentre ero a letto in preda ai miei disturbi, mi ripetevo di alzarmi anche solo per andare in bagno, anche soltanto per bere un po’ d’acqua. Solo il fatto di stare in piedi per quei cinque minuti sarebbe stato il più grande risultato della mia vita.

 

 

“La terapia mi ha restituito mio padre, per questo dono 10mila euro ad altrimenti”

Ho adorato mio padre fino alla maggiore età. Nell’infanzia è stato il mio esempio, il mio mito e il mio confidente migliore.

Dai diciotto anni fino a pochi anni fa invece ho vissuto una serie di contrasti con lui che hanno inficiato sensibilmente il nostro rapporto. Ero convinto che lui contrastasse le mie scelte di vita e pensavo non avesse stima nei miei confronti. Mi sono sempre sentito come il figlio che non segue il “seminato”, la pecora nera che s’illude di poter vivere in maniera libera al di fuori del sicuro tracciato paterno fatto di realismo e concretezza.

Ero ossessionato dall’idea che dovevo resistere alle sue pressioni per affermare il mio diritto ad una vita libera e diversa da quella che lui aveva in mente per me.

Qualche anno fa a seguito di una serie di eventi ho cominciato una terapia con una terapeuta cognitivista, legata ad altrimenti, e piano piano ho scoperto come i miei pensieri condizionassero la mia vita ed il mio comportamento. Ho scoperto come le modalità relazionali che avevo con le altre persone, ed in particolare con mio padre, seguissero un modello mentale totalmente virtuale non basato sui fatti reali, ma sulla mia rappresentazione personale di essi.

Spesso queste due visioni, quella reale e quella virtuale si distaccava notevolmente fino a portarmi a conclusioni totalmente differenti. In pratica non riuscivo più a vedere mio padre come era in realtà, con tutti i suoi pregi e tutti i suoi difetti, ma continuavo a vederne la proiezione che era presente nella mia mente e che seguiva un modello oramai consolidato negli anni, tanto scontato quanto immutabile. Ogni sua azione, ogni sua parola veniva analizzata dal mio modello ed incanalata verso dei percorsi relazionali ben collaudati e conosciuti che mi impedivano di apprezzare qualsiasi variazione e novità che potesse minimamente mettere in discussione il modello stesso.

Tutto ciò non solo m’impediva di vedere come era veramente mio padre e quale era la sua considerazione per me, ma mi portava ad avere un atteggiamento difensivo nei suoi confronti.

La conseguenza era che mi allontanavo da lui emotivamente. In pratica per difendermi meglio non mi scoprivo e cercavo di non raccontargli le cose importanti della mia vita e i miei pensieri. Prima ancora di aprire la bocca “vedevo” il suo atteggiamento di rifiuto e “immaginavo” il dolore che ciò avrebbe provocato in me. E quindi tacevo.

Purtroppo questo mio atteggiamento gettava benzina sul fuoco e peggiorava ancora di più la situazione. Lui infatti, essendo una persona molto intelligente e sensibile, percepiva questa distanza emotiva e la interpretava, a sua volta, secondo il suo modello mentale che era, come spesso capita ai genitori, dominato dalla paura della perdita del figlio in termini non solo fisici, ma anche e soprattutto affettivi. Più io mi distanziavo affettivamente più lui si spaventava e, di conseguenza, assumeva atteggiamenti più indagatori che il mio modello mentale mi suggeriva fossero unicamente mirati al controllo della mia vita e quindi alla messa in discussione della mia indipendenza.

Con la psicoterapia ho realizzato tutto ciò e ho cominciato a sperimentare un nuovo modello relazionale con lui. I risultati sono stati entusiasmanti e ho scoperto finalmente la vera indole di mio padre, la sua sensibilità meravigliosa e la sua generosità e umanità. Tutto ciò è avvenuto pochi anni prima che morisse, ma ho avuto il tempo per instaurare con lui un rapporto di profonda intimità quale non avevo mai avuto in tutta la mia vita. Ho smesso di mettermi sulla difensiva e ho lasciato fluire dentro di me sentimenti di tenerezza ed empatia per questa persona anziana in difficoltà. Ho provato per la prima volta un senso di protezione per lui e sono riuscito ad aiutarlo a superare delle prove molto impegnative che la sua malattia gli ha posto di fronte e questo ci ha unito ancora di più.

Alla fine il nostro distacco è avvenuto in maniera molto naturale e ci siamo sentiti come due naufraghi che hanno lottato tutta la vita con il mare agitato e finalmente erano riusciti ad approdare su un’isola meravigliosa, sani e salvi per cominciare una nuova vita insieme.

Vorrei che altre persone potessero avere questa possibilità prima di separarsi dai loro genitori. Vorrei che il mio modesto contributo all’Associazione venisse utilizzato in questo senso, sperando di poter aiutare qualcuno che ha vissuto un’esperienza simile alla mia.

Auguro ad altrimenti che questa sia la prima di tante donazioni.

Storia di Luisa e di suo figlio

I problemi di mio figlio sono arrivati giorno dopo giorno, senza che fossimo in grado di capire che si stava affacciando una difficoltà molto seria e che non si trattava solo dell’adolescenza, di un carattere irritante o dell’incapacità di noi genitori di far fronte a questa trasformazione.

Nel nostro caso specifico veniva da lontano e non era individuabile neanche cercandolo. Nonostante questo, quando ci siamo rivolti a vari medici, per altri malesseri fisici, abbiamo cercato di capire come aiutare nostro figlio a superare i momenti più difficili. Nessuno si è preoccupato di andare oltre l’apparenza, in primis i vari reparti del Gaslini e del San Martino dove è stato ricoverato, i quali si limitavano a dire, anche a fronte d’interventi e cure pesanti, che si trattava in parte di comportamenti psicosomatici.

Ma questo appartiene al passato.

So adesso che i comportamenti di mio figlio erano da tempo fortemente fuorviati, anche se non visibili, che la sua sofferenza aumentava di giorno in giorno e che con essa crescevano le menzogne per nascondere quello che gli stava accadendo all’esterno ma ancor di più dentro la sua mente.

Quando poi sono scoppiate le crisi pesanti, sempre mascherate da conflitto ragazzo-genitore (io) non c’era apparentemente più niente da fare. Ci accusava di non capirlo, di non lasciargli i suoi spazi, di non ascoltarlo, mentre gli si indovinava negli occhi e nel cuore una sofferenza enorme.

Il primo aiuto determinante non lo abbiamo avuto dai servizi ma da Itaca, un’associazione per familiari di persone con disturbi mentali, fondata da alcune mamme di Genova.

Un giorno, accompagnandolo al CSM, che sapeva solo proporre medicinali e San Patrignano, ho preso l’unico volantino che offriva aiuto ai ragazzi e alle famiglie. Ho chiamato e così è iniziato il vero percorso di noi genitori per aiutare nostro figlio. Poi è venuta la diagnosi di disturbo borderline e alla fine sono approdata al corso di Family Connections (un’associazione non profit per familiari di persone con disturbo borderline di personalità). È stato un percorso graduale verso la consapevolezza di quello che ci stava accadendo. Credo anche che sia stato necessario andare per gradi, per poter acquisire le informazioni, le tattiche e le strategie per far fronte al problema.

È difficile non solo scriverlo ma anche raccontarlo. Nell’ultimo mese i rapporti con nostro figlio sono completamente mutati.

Ad esempio oggi mio figlio, appena uscito dall’incontro con il suo terapeuta, mi ha fatto una telefonata di mezz’ora, la voce normale, dentro probabilmente non era proprio bonaccia, ma aveva bisogno di parlarne ed era felice perché da quando si è sbloccata la situazione tra di noi parlarci gli sembra normale. Quando mi parla così è perché cerca di fissarsi nella mente i concetti che sono venuti fuori dall’incontro, mi usa come un fissativo.

La forza del nostro gruppo di genitori è stata seguire il manuale tutti insieme con il forte supporto dei conduttori del gruppo. Non sarebbe bastato leggerlo o studiarlo solo con un terapeuta.

Sono stata agevolata in questo periodo dalla collaborazione con mio figlio che sta facendo il percorso DBT a Milano. Le stesse cose di cui si era parlato nel gruppo lui, a volte, me le ha mostrate dal suo punto di vista. Apparentemente sembra la stessa cosa, ma parlarne con lui, applicando con lui le strategie per non esacerbare i conflitti, essere veramente sincera nel dirgli per esempio: «So che stai male. So anche che in passato nella stessa situazione avrei potuto dirti che stavi male senza capirti fino in fondo. Ma adesso coscientemente so che il tuo star male è reale e che nulla di quanto io possa dirti per cercare di sminuirlo può aiutarti. E so che per te questo sarebbe ancor più frustrante. Ti sono vicina, restiamo qui in questo momento e diamo tempo al tempo». Ebbene, quando mio figlio ha potuto credere alla verità delle mie parole, si è sciolto in lui un macigno e questo ha fatto la differenza.

Ho imparato così giorno per giorno a non abbattermi per i problemi e a non esaltarmi per i successi, a collocare al giusto posto le aspettative ma anche a mettere in primo piano il mio “voglio stare bene”: so che molto dipende dai miei comportamenti e da come io reagisco ai fattori esterni.

L’altro giorno mi ha detto che le nostre strade adesso sono parallele, che lui può fidarsi, che, pur nelle imperfezioni e negli inciampi, lui sa che io non sono giudicante, che so come soffre e non ha più bisogno di preoccuparsi per me e per il mio benessere, cosa che accresceva la sua sofferenza.

Prendo nota dei fatti e vado avanti, non mi soffermo su traguardi, ma sono soddisfatta di quanto questi tre anni mi hanno fatto crescere in consapevolezza.

Il disturbo borderline: un dolore difficile da raccontare

«Le emozioni sono così intense che certi giorni è difficile alzarsi dal letto, andare a lavoro o anche semplicemente essere se stessi. Ti viene voglia di farti del male, non vuoi sentirti così ogni singolo giorno. Non capisci cosa ti sta succedendo e ti chiedi: perché devo stare così?».

La sofferenza a cui il giovane Donovan non riesce a dare un nome è conosciuta in ambito psicologico come Disturbo Borderline di Personalità (DBP). Cambi di umore improvvisi, instabilità dei comportamenti e delle relazioni sociali, impulsività e difficoltà ad organizzare i propri pensieri sono solo alcuni dei sintomi sperimentati da chi soffre di DBP.

Dalla gioia alla tristezza, dalla rabbia al senso di colpa. La persona affetta da disturbo borderline oscilla continuamente tra emozioni contrastanti o, addirittura, le sperimenta tutte insieme. Il risultato è una sensazione di caos che confonde e spaventa sia chi prova tutto questo sulla propria pelle, sia i familiari che nella maggior parte dei casi non sanno come rapportarsi al proprio caro. Anzi, spesso sono proprio le relazioni affettive a innescare la miccia della disregolazione emotiva.

Un rifiuto, una critica, una disattenzione, o semplicemente un’aspettativa disattesa, sono sufficienti a suscitare reazioni di rabbia e dolore in chi è affetto da DBP. Una rabbia e un dolore intensissimi, repentini, duraturi e soprattutto ingestibili. Regolare le proprie emozioni diventa un compito faticoso e quasi sempre fallimentare. Alla sofferenza queste persone rispondono con atti impulsivi, litigi, risse. Al caos e alla paura con abuso di droghe, abbuffate di cibo, spese sconsiderate, promiscuità sessuale e gioco d’azzardo.

Nonostante il disturbo borderline colpisca circa l’1% della popolazione, sono ancora in pochi a conoscerne l’esistenza. «Un tipo strano, diceva tutto e il contrario di tutto». Prima o poi capita di incontrare qualcuno che parla senza seguire un filo conduttore, che racconta mille episodi senza trarne conclusioni logiche, che parla di sé e degli altri cambiando continuamente opinione. E se non fosse un tipo strano? Se fosse una persona che soffre di disturbo borderline?

È come se uno strato di pelle fosse stato strappato via, lasciando scoperti i nervi, che a questo punto sentiranno ogni impercettibile vibrazione dell’aria. Le persone con DBP avvertono ogni comportamento altrui come potenzialmente lesivo. Soffrono per ragioni che lascerebbero completamente indifferenti soggetti emotivamente meno fragili. Si buttano a capofitto nelle relazioni (familiari, amicali, amorose), dando tutto e pretendendo di più: le vie di mezzo non sono contemplate. La paura dell’abbandono è una costante compagna di viaggio, per questo chi soffre di DBP tenderà a dividere il suo mondo relazionale in buoni e cattivi e ad aggrapparsi fortemente alla prima categoria. L’idealizzazione delle persone amate o ammirate è un tratto comune, così come la repentina svalutazione delle stesse persone. Il confine tra buoni e cattivi è mobile. Una delusione o un comportamento sbagliato bastano a etichettare un buono come cattivo. L’altro è spesso percepito come dannoso, ostile, giudicante.

Nella testa di chi soffre di DBP nasce così la convinzione di non essere amato, o peggio, di non meritare amore. «Non valgo niente!», «Sono un bluff!», «Sono inconsistente! », «Sono sbagliato!» sono pensieri ricorrenti. Fuori c’è un mondo avvertito come nemico, dentro un giudice severo e poco incline a perdonare gli errori.  Il risultato è una penetrante sensazione di solitudine, abbandono e paura. Un senso di vuoto al quale le persone affette da disturbo borderline possono reagire con stati di dissociazione mentale, abuso di droghe e alcol, atti lesivi e tentativi di suicidio.