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Padri e figlie, insieme contro gli stereotipi

Girolamo Grammatico, coach umanistico (fra poco ci spiegherà cosa significa) ha scritto un libro che tutti i papà dovrebbero leggere. Ma anche se l’ha intitolato Padri e figlie – Allenarsi alla parità di genere”, contiene spunti preziosissimi per ogni genitore e più in generale per chiunque voglia saperne di più su questioni come sessismo, maschilismo, patriarcato, tanto per citare alcuni dei concetti che ricorrono di più nella riflessione di Girolamo, che ha una capacità speciale di “smontarli” delicatamente pezzo per pezzo.

L’obiettivo dichiarato del tuo libro è ambizioso, lo cito per intero: «Cogliere l’opportunità del rapporto fra padre e figlia per indagarlo dal punto di vista del coaching, offrire uno strumento ai genitori per migliorare la propria competenza educativa e realizzare un effetto domino di rinnovamento culturale». Rapporto padre e figlia, dunque: cominciamo da qui?

Se la nascita di un figlio è sempre qualcosa che ti cambia la vita, per un uomo quella di una figlia è l’opportunità per una riflessione ulteriore. Mia figlia Gaia, di 9 anni, mi chiede che padre sarò o, meglio, che padre desidero essere, ponendomi subito una questione di genere: io sono un maschio, comincio a rendermi conto che il mondo è maschio-centrico, come voglio dunque gestire il problema? Ecco, se un padre si fa queste domande ha già messo un piede fuori dallo stereotipo. Se non se le fa, è probabile che viva la propria vita e la relazione con sua figlia col “pilota automatico”, rischiando di crescere una figlia sottomessa o ribelle non perché è il suo carattere, ma perché non è stato capace di costruire con lei una relazione matura.

Un altro elemento fondamentale di Padri e figlie è il coaching. Che tipo di coach sei e in che cosa il tuo lavoro ti aiuta nell’apprendimento alla genitorialità?

Io sono un coach umanistico, la tipologia di coaching che allena le potenzialità della persona e parte da queste affinché diventino virtù ed eventualmente talenti, eccellenze. Il coach umanistico non agisce direttamente sul problema, ma sulle risorse interiori affinché da lì nascano le soluzioni. Si tratta di un approccio sì filosofico, ma anche e soprattutto pratico, perché il coach (da qui il nome) deve mirare all’allenamento dell’altro: non si deve limitare al dialogo con il suo coachee (cliente), ma appunto deve essere fedele al mandato di coaching che significa allenamento, esercizio. E si tratta di un allenamento alla portata di tutti: lo provi, se funziona bene, sennò lo cambi, senza remore e sensi di colpa.

E quindi fai il coach di tua figlia?

Assolutamente no! In questo caso sono solo il coach di me stesso. Infatti, quando mi capita di esagerare, è proprio Gaia che me lo fa notare: dài papà, ora basta con questa saggezza… Succede ad esempio quando, guardando un film, colgo lo spunto per un qualche discorso e lei fiuta subito l’aggancio educativo, pedante, fermandomi. Un altro esempio: l’altro giorno mia figlia doveva comprare un regalo per una sua amica, le ho suggerito qualcosa e mi ha risposto sicura che «non tutte le famiglie sono femministe». Oltre al fatto che Gaia è una persona a me vicina, un mio familiare, questo accade per un motivo da manuale: non si può fare coaching se non c’è domanda di coaching. E sicuramente i bambini non vengono a chiederti di allenarli…

Girolamo Grammatico, autore di Padri e figlie
Girolamo Grammatico, autore di “Padri e figlie – Allenarsi alla parità di genere”

Nel libro auspichi che l’educazione alla parità di genere in famiglia possa avere un effetto domino sulla società. Quali sono ancora oggi le barriere da abbattere?

Sicuramente il bersaglio principale resta la cultura patriarcale. Che ha due limiti principali, oggi sempre più evidenti: la scarsa capacità di gestire le emozioni e di comprendere le diversità. Parto da questo secondo punto, caldissimo: il patriarcato teme le diversità perché è rigido e verticistico, mentre la diversità è parallela, composita, eterogenea. Il patriarcato vede il mondo diviso in maschi e femmine bianchi ed eterosessuali, ma si capisce subito che c’è qualcosa che non va: il mondo è più complesso, ricco, “sottosopra”. Quello che dobbiamo fare è educarci alla diversità, accettandola non passivamente ma come alterità da comprendere. Certo, in molti fanno fatica – e anch’io mi ci metto qualche volta – a capire tutte le sfumature della diversità, ma l’atteggiamento migliore è quello del curioso, come se dovessimo fare un “collaudo” delle nostre convinzioni (prendo a prestito quest’idea da Bruno Mastroianni). Ed è un concetto interessante, perché “collaudandosi” si arriva a qualcosa che supera quello da cui si è partiti. Anche sul primo punto, la scarsa alfabetizzazione ai sentimenti, c’è molto da fare. Siamo purtroppo abituati a identificare ed esprimere pochi sentimenti base, come gioia, dolore, rabbia, paura, tristezza. Ma c’è un vocabolario dei sentimenti vastissimo e quando mi alfabetizzo ai sentimenti li riconosco anche negli altri, entro in empatia con molta più facilità. Del resto, come aveva capito l’antropologo Robert Levy già cinquant’anni fa, se ti mancano le parole per raccontare il tuo mondo interiore l’unico modo che hai per esprimerti è la rabbia.

A proposito di parole: è lì che si annidano molte trappole del sessismo…

Espressioni come “non fare la femminuccia, donna al volante, guarda che bravo mammo”: sembrano innocue, ma dietro nascondono una visione del mondo stereotipata e discriminatoria, in cui raramente le parti si invertono. La forza del patriarcato oggi è che non si presenta più con la faccia severa del passato, ma con il volto benevolo di chi è superiore alle mode, è inclusivo, paternalistico. Intendiamoci: non dico che dobbiamo star lì a puntualizzare su ogni cosa, ma quando abbiamo l’occasione di smontare questi meccanismi anche linguistici con i nostri figli, ebbene facciamolo. E a quelli che mi chiedono: ma tu cosa faresti per rimediare alla crisi del maschile? Rispondo che già vedere tutto questo come una crisi del maschile è inquadrarlo secondo un’ottica patriarcale, è il maschilismo che si ribella. Questo non è il maschile: il maschile è corale, è fatto di tante cose, non di stereotipi.

Vorrei chiudere la nostra chiacchierata con uno dei workout che proponi nel libro: «Per la prossima settimana, ogni volta che parlerai con una donna ascolta in silenzio fino alla fine. Non intervenire finché non richiesto e non dare consigli se non ti vengono espressamente domandati». Con questo “esercizio” metti il dito in un punto dolente, quello che in inglese si chiama mansplaining.

Viene da man ‘uomo’ + explain ‘spiegare’ ed è qualcosa che probabilmente tutte le donne hanno sperimentato prima o poi: indica l’uomo (un capo, ma anche un compagno, un marito, un amico) che arringa una donna come se sapesse tutto lui, quando magari invece è lei che ne sa di più. Questo esercizio, che viene dalla comunicazione empatica, va però al di là della questione della parità di genere: aiuta a educarci all’ascolto, una capacità che usiamo molto poco, abituati come siamo a parlare più forte per avere ragione. Quante volte ci succede che mentre il nostro interlocutore parla stiamo già pensando alla risposta? È sempre un retaggio della cultura autoritaria in cui siamo cresciuti. Il workout che hai ricordato ci aiuta a rimanere focalizzati sull’interlocutore, senza annullarci, ma rendendoci consapevoli di questi meccanismi invasivi e condizionanti che ci allontanano da una vera connessione con l’altro e l’altra.

Ph: Mael Balland (Unsplash).

 

 

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