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Arriviamo puntuali ad un appuntamento che non ci eravamo dati

“Arriviamo puntuali ad un appuntamento che non ci eravamo dati”. Una frase che è come un fulmine: non potremmo descrivere meglio la sensazione che si prova quando il dolore entra nella tua vita. In particolare quando questo dolore riguarda i tuoi figli, tuo figlia o tua figlia che, improvvisamente, comincia a stare male. “A dare i numeri” come si dice di solito.

Adolescenza?

Adolescenza? Molto spesso è questa l’età d’esordio dei disturbi borderline di personalità e comunque questa è spesso l’età in cui se c’è stato qualcosa che ha fatto attrito nella crescita non rimane più in sottofondo ma esplode con tutta la sua violenza, la violenza dell’impulsività. Nel disturbo borderline di personalità questa violenza ha anche una base fisiologica: un’amigdala iper-attivata e una corteccia pre-frontale, sede dei pensieri riflessivi, invece non accessibile. È, per usare una metafora di Valerie Porr, come guidare una macchina con l’acceleratore al massimo (l’amigdala) e senza freni (la corteccia non accessibile). Certamente prima o poi ti fai male. E prima o poi fai male a qualcuno, più facile che fai male a qualcuno che ami che ad un estraneo. Perché? Perché molto spesso le persone con disturbo borderline hanno una competenza apparente che li rende adeguati nelle situazioni pubbliche e dis-regolati in quelle private.

Cosa succede quando un figlio sta male?

Quello che succede di solito quando un figlio sta male emotivamente è che inizia la caccia al colpevole e spesso inizia anche il circolo dei sensi di colpa. Sensi di colpa che fanno oscillare tra comportamenti iper-compensativi ed esplosioni distruttive dalle quali non si riesce ad uscire. E una delle ragioni per cui non si riesce ad uscire è che tutta l’attenzione è su chi sta male dimenticando che quando un figlio sta male tutta la famiglia si ammala e nel suo ammalarsi può finire per contribuire al mantenimento o peggioramento del disagio emotivo. Anche questo un circolo vizioso che rischia di aumentare il senso di impotenza e frustrazione. Cosa possiamo fare? Questa è la domanda che si fanno i genitori, una domanda a cui spesso dimentichiamo non solo di dare risposta ma anche di dare ascolto perché, il malato, è il figlio, la figlia, o come si dice nell’approccio sistemico-familiare, il “paziente designato”

Imparare un altro linguaggio

Valerie Porr cerca di rispondere a queste domande e lo fa con un linguaggio che arriva esattamente dove deve arrivare. Un linguaggio semplice e pratico insieme. Immagina di andare in un paese di cui non conosci la lingua. Devi comunicare e per farlo è necessario imparare i rudimenti di questa lingua nuova e sconosciuta. Non puoi pretendere che ti capiscano, né imporre la tua lingua come standard minimo di comunicazione. Per uscire dall’isolamento è necessario imparare quel linguaggio nuovo e diverso.

Le persone con disturbo borderline parlano una lingua che i genitori non capiscono e che spesso ritengono incomprensibile, inadeguata e sbagliata. Fino a che non imparano a trovare un linguaggio comune si scontrano con l’ isolamento: i figli sono isolati nel loro dolore, i genitori nel proprio e, invece che avvicinarsi si scontrano cercando di trovare una connessione perduta. Come ristabilire la connessione? Valerie Porr indica una strada fatta di alcuni passi che fanno parte del percorso della DBT (Terapia Dialettico-Comportamentale). Questi passi, senza entrare nello specifico della DBT, sono utili sempre, anche quando il problema non è un disturbo come quello borderline di personalità. Sono passi che aiutano quando il dolore  ci mette in una condizione di isolamento. Perché più la difficoltà è forte e più possiamo sentirci isolati, anche di fronte a persone che, attorno a noi, desiderano aiutarci e non sanno come fare per raggiungerci.

Siamo in territorio straniero

Quando abbiamo un problema forse la prima cosa è accettare che stiamo entrando in un territorio straniero. Un territorio dove le nostre competenze abituali non sono più così accessibili perché la rabbia, la paura e il dolore aumentano le risposte impulsive e diminuiscono la capacità di riflettere (e rimuginare non è riflettere). In una parola il dolore fa da interruttore d’accensione delle difese e le difese, molto spesso fanno più danno che altro, diminuendo la capacità di entrare in contatto con chi ci sta di fronte: ecco perché ci sentiamo isolati.

Pensare di essere in un territorio straniero ha un enorme vantaggio: ci mette in una posizione antropologica e ci toglie dalla posizione clinica. Siamo alla scoperta di un’altra “cultura” e non di una “malattia”. Spesso la diversità è stata patologizzata perché sovverte la cultura di riferimento, lo stile familiare, le aspettative sociali e non ci fa fare invece lo sforzo di domandarsi: come posso capire le norme della cultura straniera che ho incontrato? E, a questo proposito, il linguaggio di chi cura può essere una difficoltà in più. Imponiamo il nostro gergo psicologico, adatto nella tribù degli psicologi ma non adatto a tutte le tribù. Forse dovremmo darci la regola del 10% e non superare questa soglia di parole tecniche, verificando che siano state spiegate e comprese.

Riportare il dialogo per riportare la connessione

Può succedere di stare male e di non capire il proprio stato emotivo – per chi soffre di un disturbo borderline di personalità questa è la condizione quotidiana – questo rende la comunicazione frustrante e frammentata. Se ti senti in colpa per quello che sta succedendo ti metti in una doppia condizione di frustrazione e sono due le persone che devi salvare: te stesso e l’altra persona. Te stesso perché devi trovare il modo di rassicurarti che non è colpa tua ( e spesso il modo è dire che è colpa dell’altro) e l’altro perché sta male: è un compito soverchiante. Per usare sempre una metafora usata da Valerie Porr è come sentire una persona che ami urlare di dolore in una stanza di cui non hai la chiave. Ad un certo punto questo ti fa impazzire. Dobbiamo trovare la chiave e la chiave è la validazione.

Ecco che arriva la parola tecnica: validazione

Cos’è la validazione? È un termine tecnico – come vedi ogni tanto questi termini tecnici dobbiamo usarli –  che significa riconoscere all’altro il diritto di provare quello che prova. Sembra facile ma non lo è perché, appunto, abbiamo l’interferenza del senso di colpa, della rabbia, del dolore, della paura. Ma, soprattutto, abbiamo una terribile confusione di base tra le emozioni e i comportamenti collegati alle emozioni.

Tutte le emozioni che ci mettono in difesa attivano l’amigdala e fin qui niente da dire se non fosse che, se l’attivazione è intensa, diventano anche impulsi all’azione. Gli impulsi all’azione sono duri, difficili da gestire se non siamo consapevoli. Se siamo consapevoli possiamo distinguere l’emozione che proviamo dal comportamento che ci spingerebbe ad agire. Pratichiamo pausa – come diciamo nella mindfulness – diventiamo consapevoli della nostra emozione, la validiamo, ossia riconosciamo il nostro diritto a provarla e poi scegliamo come agire. Questo processo non deve farlo solo chi sta male ma sia chi sta male che la persona che vuole prestare soccorso. E già questo può non essere facilmente comprensibile per un genitore perché il genitore vuole rispondere subito, immediatamente, al dolore del figlio. Anzi a volte non vorrebbe che nemmeno conoscesse il dolore e il figlio potrebbe non essere in grado di farlo. Per l’intensità del suo dolore, per inesperienza, perché ha una soglia alta di frustrabilità ossia è molto sensibile e anche piccoli dolori hanno grande risonanza. Insomma chi ha più saggezza la usi: la validazione è la chiave che apre la porta, che rompe l’isolamento e la disconnessione, che separa il diritto a provare un’emozione e sospende il giudizio sul comportamento rispetto al quale probabilmente avremmo molto da ridire

Gli ingredienti della validazione

La validazione è un ascolto generoso che è fatto da tre ingredienti principali: essere simpatetici, compassionevoli ed empatici. Essere simpatetici significa essere sensibili alle sensazioni altrui. Spesso le persone altamente sensibili sono sensibili solo alle proprie sensazioni e quindi diventa difficile per loro usare proprio questa loro grande qualità: la sensibilità. Le persone simpatetiche invece sanno riconoscere velocemente le sensazioni degli altri. Essere simpatetici richiede anche una qualità: non aggiungere la propria sensibilità alla sensazione dell’altro. Io sento il tuo disagio ma rimane il tuo disagio e non “io sento il tuo disagio e ci metto sopra una spolverata del mio disagio per il tuo disagio” come facciamo più frequentemente quando è una persona che amiamo a soffrire.

La compassione è sia uno stato mentale – che possiamo coltivare attraverso la pratica di mindfulness – che un’emozione che sorge quando ci permettiamo di sentire il dolore, nostro e altrui. Ecco perché le difese non aiutano: servono per ridurre la percezione del dolore e, conseguentemente, riducono anche la possibilità di provare compassione e self-compassion. Sviluppare la compassione non è facile e nemmeno automatico: richiede impegno e pratica perché la prima risposta, istintiva, è quella di difenderci dal dolore ma questa difesa aumenta il senso di isolamento e dis-connessione e, nel lungo periodo non offre vantaggi. Il problema è che nell’immediato la difesa può sembrare molto efficace. Mi dà fastidio qualcosa ed evitandola il fastidio diminuisce fino a scomparire. Peccato che rimanga come un fuoco che cova sotto la cenere. La compassione può suscitare rabbia. Rabbia perché vediamo il pericolo che corre la persona che amiamo ma quella rabbia è salutare perché alimenta il desiderio di proteggere. È quella che ci spinge ad essere attivi nella ricerca di soluzioni, è quella che ci fa rimanere svegli per curare qualcuno o che ci rende vigili nelle situazioni difficili ed è diversa dalla rabbia difensiva: è premura e non preoccupazione.

L’empatia è la capacità di mettersi nei panni dell’altro ed è diversa dalla compassione. Nell’empatia “sappiamo cosa prova l’altro”. Nella compassione proviamo il desiderio di alleviare la sofferenza dell’altro. Abbiamo bisogno di essere empatici per riconoscere la sofferenza dell’altro oltre che simpatetici. L’empatia riconosce lo stato mentale, l’essere simpatetico le sensazioni fisiche ed emotive. La validazione riconosce, tutto insieme, il diritto dell’altro di provare l’emozione che prova. Un’emozione che può essere nascosta sotto un comportamento opposto: c’è dolore ma mostra rabbia. C’è bisogno di connessione ma mostra desiderio di isolarsi. La validazione distingue tra il diritto di provare quello che si prova e il comportamento, senza entrare nella riprovazione del comportamento. Bene allora tutto chiaro, no?

Non è facile essere contro-intuitivi

Non è facile essere contro-intuitivi e la validazione ci chiede di farlo. Di andare oltre al comportamento manifesto che può essere molto discutibile e di vedere l’emozione sta sotto il dolore. Di imparare a riconoscere gli interruttori di quella reattività e, soprattutto ci chiede di non essere reattivi. Questa è la prima grande difficoltà della validazione. Ci chiede di essere così consapevoli di noi e dei nostri stati mentali da non diventare reattivi nemmeno di fronte alle provocazioni più intense. È per questo che la mindfulness è così importante: coltiva, attraverso la consapevolezza e la pratica, la capacità di rispondere e non reagire. Coltiva la capacità di prendersi cura del proprio dolore

La validazione attiva anche un paradosso: va male ma non voglio cambiarti e non ti amo perché tu cambi. Ti amo e ti accetto così come sei, senza speranza e senza disperazione. Quante volte possiamo dire di amare senza metterci il desiderio che il risultato del nostro amore sia il cambiamento? Quante volte interpretiamo il fatto che l’altro non cambi come un segno di non amore? Quante volte il fatto che nostro figlio, nostra figlia abbia dei problemi è vissuto come un fallimento della nostra genitorialità?

Non è facile essere contro-intuitivi. Significa vedere risorse dove ci sono problemi, possibilità dove ci sono limiti e non cercare la via d’uscita da quell’appuntamento che non sapevamo di esserci dati e al quale arriviamo puntuali e impreparati.

L’articolo è uscito in originale sul sito Bioenergetica e Mindfulness di Nicoletta Cinotti.

Ph: Photo by Nick Fewings on Unsplash 

Esce in Italia il libro più diffuso negli USA per i familiari di persone con disturbo borderline

È uscito da poco per Erickson il volume “Superare il disturbo borderline di personalità” di Valerie Porr, fondatrice dell’onlus internazionale TARA (Treatment And Research Advancements for Borderline Personality Disorder): non un testo accademico, ma una vera e propria Guida pratica per familiari e clinici, come recita il sottotitolo. altrimenti ne ha parlato con le due curatrici dell’edizione italiana: Elisabetta Pizzi, psicologa e psicoterapeuta DBT, e Francesca Gallini, pediatra e docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.

Elisabetta, cominciamo con lo spiegare che cos’è il disturbo borderline di personalità.

EP: Il disturbo borderline di personalità è essenzialmente un disturbo del sistema emotivo: le persone che presentano questa diagnosi hanno una vulnerabilità emotiva, su base biologica, che consiste nell’avere emozioni molto più intense degli altri e grande difficoltà nel gestirle, ad esempio difficoltà a tornare calmi se si arrabbiano, a placare l’agitazione se sono particolarmente ansiosi o a riattivarsi se sono depressi o tristi. La difficoltà di cui parliamo è appunto biologica e le persone che soffrono del disturbo senza un trattamento specifico non riescono a gestire questa parte emotiva, pur  desiderandolo intensamente:  hanno assoluto  bisogno di un allenamento psicologico mirato ad  abbassare l’intensità delle loro emozioni.

Un’altra caratteristica è che le persone con disturbo borderline di personalità si attivano con pochissimo: a volte basta anche lo sguardo di una persona che magari per motivi propri è arrabbiata per farli sentire rifiutati o attaccati. È come se vivessero faticosamente in un mondo che attiva tanti stimoli e da cui in qualche modo si devono difendere, è come se avessero continue esplosioni emotive interne che possono portarli ad avere molti problemi relazionali. Il dolore che questi pazienti provano a volte arriva a essere così intenso da far nascere in loro idee suicidarie e comportamenti autolesivi o parasuicidari (ovvero comportamenti che non sono finalizzati a uccidersi ma che possono comunque portare alla morte, come guidare sotto l’effetto di stupefacenti o alcol e tagliarsi le braccia). Questa vulnerabilità emotiva li porta a essere molto impulsivi.  Una delle emozioni che gestiscono con più difficoltà è la rabbia, per cui a volte hanno degli scatti d’ira violenti; oppure sperimentano stati di solitudine fortissima, anche se si trovano in presenza di altre persone, o di vera e propria angoscia se devono esporsi in situazioni di performance. Per tutti questi motivi faticano ad avere relazioni, anche perché nei momenti di crisi possono arrivare ad avere comportamenti aggressivi nei confronti dei loro familiari, che vivono a loro volta in uno stato di grande sofferenza.

Da che età si può cominciare a parlare di disturbo border?

EP: Tradizionalmente i protocolli medici imponevano che la diagnosi si facesse solo dopo i 18 anni, ma da un po’ di tempo esperti soprattutto statunitensi hanno iniziato a parlare di diagnosi precoce, anticipandola anche all’inizio dell’adolescenza. Oggi si incentiva proprio la diagnosi precoce, per poter intervenire prima possibile e prevenire il carico di sofferenza che altrimenti questi pazienti sono destinati ad accumulare negli anni. Se parliamo di vulnerabilità genetica, probabilmente si potrebbero vederne i sintomi fin dall’infanzia, ma non ci sono ancora studi evidence based che dimostrino quali tipologie di vulnerabilità infantile possono portare allo sviluppo del disturbo borderline. Guardando ai dati, in Italia non esistono studi epidemiologici specifici, ma gli studi internazionali indicano un tasso di incidenza del disturbo border fra l’1 e il 5%. Numeri molto significativi, insomma.

Il lavoro di Valerie Porr è molto noto negli Stati Uniti, ma ancora non Italia: Francesca, come avete incontrato questo libro e perché è importante averlo tradotto?

FG: Me ne parlò tempo fa un familiare di Genova, Barbara Corbin: quando l’ho letto per la prima volta in inglese ne sono rimasta folgorata. Finalmente un libro che insegnava ai genitori, con un linguaggio chiaro per non addetti ai lavori e ricco di esempi pratici, che cos’è questo disturbo e come gestirlo. Con Elisabetta e altre mamme di Genova ci siamo presto rese conto che in italiano non esisteva niente di simile e che dunque era necessario venire incontro al bisogno di tanti pazienti e delle loro famiglie, dando loro soprattutto la speranza che si può per davvero stare meglio. Il concetto alla base del volume è che intorno alla persona che soffre c’è un’intera famiglia che soffre e di cui nessuno si occupa. Inoltre, se si fanno dei trattamenti sui pazienti molto gravi che vivono in casa o sugli adolescenti senza integrare la famiglia, si rischia che siano quasi inefficaci: dunque, se si vuole curare i pazienti border, diventa fondamentale prendersi carico anche delle loro famiglie. Valerie Porr racconta poi molto bene perché spesso i familiari delle persone con il disturbo borderline di personalità hanno difficoltà ad essere credute e capite dagli amici o altri familiari. Spiega infatti che i border possono avere una “competenza apparente”: in alcuni ambienti (come la scuola o il lavoro) funzionano sufficientemente bene, mentre a casa, in un ambiente emotivamente più coinvolgente, tirano fuori tutti i loro sintomi. E spesso i familiari, che hanno a che fare con loro in questi momenti di disregolazione, se parlano con persone esterne, hanno la sensazione di inventarsi le cose.  Innanzitutto quindi leggere nero su bianco che non sono soli e che la loro esperienza è condivisa da molte altre persone può dare a questi familiari immediato sollievo.

Valerie Porr insegna ai genitori delle tecniche per la gestione del disturbo border basate su due metodologie scientificamente riconosciute: la DBT e il trattamento basato sulla mentalizzazione. Di che si tratta?

EP: È un punto molto importante. Per quanto riguarda la DBT, ideata da Marsha Linehan, è attualmente uno dei trattamenti più diffusi ed efficaci del disturbo border, con più di 20 studi di efficacia (contro i 2-3 degli altri trattamenti). Un elemento chiave di questa terapia è lo sviluppo della capacità di accettare la vita così come è. L’“accettazione” è qualcosa che devono imparare in primo luogo i pazienti stessi, che purtroppo si trovano a dover accogliere un passato e un presente di profonda sofferenza e un futuro spesso molto incerto, ma Marsha Linehan ribadisce anche l’importanza di insegnare l’accettazione ai terapeuti, che devono a loro volta accettare i comportamenti difficili di questi pazienti (che possono essere anche molto aggressivi nei loro confronti, non venire alle sedute, rifiutarsi di pagare e così via), senza essere punitivi e puntando invece alla comprensione dei meccanismi che li mantengono e al cambiamento in base a dei tempi realistici.  

Il trattamento basato sulla mentalizzazione si fonda invece sugli studi degli inglesi Peter Fonagy e Antony Bateman (2004), secondo cui chi ha un disturbo border non ha sviluppato un’adeguata capacità riflessiva sui propri pensieri ed emozioni e su quelli degli altri. Secondo questi scienziati per curare il disturbo borderline è necessario insegnare ai pazienti a riflettere sui propri pensieri ed emozioni e sui fraintendimenti che possono nascere a livello relazionale con gli altri. Anche questo trattamento è risultato efficace dal punto di vista scientifico. Su presupposti in parte simili si basa anche la terapia metacognitivo-interpersonale, un trattamento tutto italiano, anch’esso studiato scientificamente e con prove di efficacia, che è stato sviluppato qualche anno prima rispetto agli studi di Bateman e Fonagy presso il Terzo Centro di Psicologia Cognitiva, un centro clinico e di ricerca di eccellenza per la cura dei disturbi di personalità che ha sede a Roma. Anche secondo questi studiosi, quindi, riuscire a stimolare un pensiero consapevole sui propri impulsi aiuta a ridurre la reattività emotiva delle persone.
Basandosi su questo tipo di studi, Valerie Porr aiuta i familiari a usare modalità più riflessive nell’analisi delle situazioni relazionali con i loro figli, stimolando la capacità di  “mentalizzazione” dei genitori.  

Da quanto descrivete sembra che il libro possa essere una guida fondamentale per chiunque vive con una persona con disregolazione emotiva…

FG: Proprio così: tuttavia può essere di grande aiuto anche per chi sta accanto a una persona traumatizzata, per farla vivere in un ambiente meno sollecitante dal punto di vista della riattivazione relazionale. In generale è un libro molto utile per tutti i familiari che si rapportano a un proprio caro con disregolazione emotiva, ossia con chi ha delle emozioni molto forti, che sia una persona traumatizzata o con disturbo bipolare o con disturbo borderline. Addirittura si potrebbe dire che è un libro utile a tutti: le tecniche che insegna, dalla validazione all’accettazione radicale e alla mentalizzazione, servono a ognuno di noi nel quotidiano, col collega nervoso, con la cameriera al ristorante che è troppo indaffarata per vederti, con  l’automobilista disattento che ti viene addosso con la macchina. Del resto, forme di disregolazione emotiva dovute anche a dei piccoli traumi possiamo averle tutti, dipende da ciò che ci accade nella vita.

Se doveste indicare il concetto di questo libro che volete arrivi a più persone possibile, quale sarebbe?

FG: Cito una frase secondo me illuminante: “Con i vostri cari dovete decidere se avere ragione o essere efficaci”. Nel senso che è più importante trovare un modo di entrare in relazione con gli altri e riuscire a farsi capire piuttosto che intestardirsi cercando di dimostrare di avere ragione. Quello che conta è ottenere il risultato e aiutare il nostro familiare in difficoltà.

EP: A mio parere è fondamentale che i genitori imparino a esigere terapie evidence-based per i loro figli. Può sembrare assurdo, ma ancora da troppe parti vengono impiegate cure che non sono verificate scientificamente. Spero che la lettura di questo libro aiuti le famiglie a fare domanda di cure davvero adeguate e convalidate, in modo da obbligare i servizi sanitari a dare risposte altrettanto adeguate.

Ph: Porcellane “kintsugi”, antica arte giapponese che consiste nel riparare oggetti con la polvere d’oro.

 

Disturbo borderline: informazioni utili per i familiari

Inghiottiti dal vortice della sofferenza, i familiari di persone con disturbo borderline si trovano spesso ad affrontare da soli le situazioni più critiche.

Il disturbo borderline di personalità (DBP) è un disturbo caratterizzato da un’instabilità pervasiva nei rapporti interpersonali, un’instabilità nell’immagine di sé e una marcata impulsività. Chi ne è soffre mostra delle reazioni emotive molto intense che oscillano drammaticamente anche per motivi apparentemente poco importanti. Questi cambiamenti d’umore sono dovuti a una difficoltà biologica a regolare le proprie emozioni.

Vivere con una persona con DBP vuol dire vivere sulle montagne russe insieme a loro. I familiari di persone con disturbo borderline si trovano il più delle volte soli nelle situazioni più critiche.

Cosa può fare un familiare? 

Esistono oggi dei programmi per familiari di persone con disturbo borderline finalizzati a fornire informazioni e a sostenere chi ne ha bisogno. Uno di questi è la Family connection, una rete di familiari volontari che ha lo scopo di diffondere un protocollo di psicoeducazione per parenti e amici di persone con DBP. Da qualche anno ci sono gruppi di Family connections anche in Italia (http://borderline-italia.it).

Può inoltre rivolgersi a degli esperiti di questo disturbo specializzati in un trattamento psicoterapico che funzioni, ossia uno di quei trattamenti la cui efficacia è stata dimostrata scientificamente attraverso studi sperimentali randomizzati e controllati (Randomized Control Trials, RCTs). Nella realtà anglosassone gli approcci empiricamente validati sono indicati dalle Linee guida NICE (National Institute for Health and Care Excellence) un istituto che indica orientamenti e consigli basati sulla ricerca per coloro che forniscono e commissionano servizi sanitari, di salute pubblica e di assistenza sociale. In Italia c’è meno informazione.

I trattamenti più efficaci

Attualmente i trattamenti che risultano efficaci per la cura di questo disturbo sono quattro: il Mentalization Based Treatment (MBT) di Anthony Bateman e Peter Fonagy, la Transference Focused Psychotherapy (TFP) elaborata dal gruppo di ricerca e di clinica coordinato da Otto Kernberg, la Schema Focused Therapy (SFT) di Jeffrey Young e la Dialectical Behavior Therapy (DBT) di Marsha Linehan. Quest’ultimo è il trattamento scientifico per il DBP più diffuso nel mondo, probabilmente più generalizzabile e più studiato, con oltre 20 studi di ricerca condotti rispettano la “regola” della ricerca degli studi randomizzati controllati. Questi trattamenti incominciano ad essere diffusi anche in Italia.

Ci sono infine delle Linee guida per familiari, pubblicate dalla The New England Personality Disorder Association e usate all’interno del Programma di Gruppo Multifamiliare del Prof. John G. Gunderson, che sono tradotte in italiano e facilmente consultabili attraverso il sito americano di Family Connections. (http://www.borderlinepersonalitydisorder.com/wp-content/uploads/2016/01/GuidelinessItalian.pdf?x33828)

 

DBT, la terapia nata dalla sofferenza

Ricordando i giorni trascorsi nell’area di isolamento di un istituto psichiatrico americano, Marsha Linehan rivela: «Mi sentivo completamente vuota, come l’uomo di latta, e non capivo come mi stesse succedendo». All’epoca la Linehan non era ancora una famosa docente e terapeuta americana, né tantomeno una studiosa di fama internazionale. Era solo Marsha, un’adolescente affetta da disturbo borderline, alla quale era stata erroneamente diagnosticata una schizofrenia.

Da paziente a terapeuta. Nessuno meglio di chi ha provato l’inquietudine, la solitudine, la paura che accompagna il disturbo borderline, avrebbe potuto ideare una strategia per uscirne. Dopo la laurea Linehan passò anni a lavorare con pazienti che avevano tentato di porre fine al proprio dolore togliendosi la vita. Fu a quel punto che capì: la sofferenza è la chiave, per cambiare davvero bisogna accettarla.

Nasce la DBT. Molti anni dopo questa intuizione, l’ex paziente Marsha Linehan mise a punto un nuovo approccio terapeutico: la Dialectical Behavior Therapy. La DBT è un trattamento cognitivo-comportamentale pensato per la cura di persone con diagnosi di Disturbo Borderline e comportamenti cronicamente suicidari. Il rischio che questi pazienti si tolgano la vita è infatti molto alto, dieci volte superiore alla media della popolazione. La DBT si compone di tre elementi: un gruppo di skills training, finalizzato all’acquisizione di competenze per la regolazione di comportamenti disregolati; una terapia individuale; un servizio di coaching telefonico.

Lo skills training Letteralmente è l’“allenamento delle abilità”. Un po’ come succede in palestra, i pazienti si allenano a sviluppare strategie nuove per risolvere problemi vecchi. L’attività si svolge in piccoli gruppi, da un minimo di 3 a un massimo di 8 persone. Dura circa 6 mesi, con incontri settimanali da un’ora e mezza.

L’obiettivo principale è imparare a regolare le emozioni. Se il dolore per un rifiuto e per una parola fuori posto diventa sopportabile, la persona non avrà più bisogno di ricorrere ad alcol, droga o a pratiche di autolesionismo. Il primo step prevede l’insegnamento dell’abilità di mindfulness (consapevolezza).

Attraverso la meditazione il paziente impara a porre attenzione al presente, a controllare i pensieri e a “schivare” le critiche che rivolge a se stesso e agli altri. Inoltre sviluppa la capacità di accettare la realtà così com’è e di fare scelte sagge. In un secondo momento il partecipante allo skills training apprende a perseguire i propri desideri e obiettivi in maniera funzionale, vale a dire facendo in modo che questo non comporti la distruzione delle relazioni interpersonali.

Il terzo gruppo di abilità riguarda la regolazione delle emozioni: si allenano le capacità di osservare e di dare un nome ai propri stati d’animo. Si lavora sulla riduzione della vulnerabilità emotiva, sulla gestione delle emozioni negative e sul potenziamento delle emozioni positive.

Questo non vuol dire, però, che dolore e sofferenza non torneranno. Per questa ragione, le ultime abilità riguardano la tolleranza. Combattere e rinnegare la sofferenza spesso la rende solo più acuta. Tollerarla invece è parte integrante del tentativo di accettare se stessi o la situazione fonte di dolore. Senza accettazione è impossibile passare a strategie di cambiamento e di soluzione dei problemi.

La terapia individuale. La DBT prevede che al percorso in gruppo si affianchi quello individuale. Il rapporto che il paziente instaura con il terapeuta mira a tenere alta la motivazione e ad applicare le competenze acquisite alle sfide della vita quotidiana.

Il coaching telefonico. E se lo stress acuto arriva di domenica pomeriggio o alle otto di sera? Il trattamento prevede la possibilità di contattare il terapeuta per fronteggiare momenti particolarmente critici che si presentano nella vita quotidiana (ad esempio gli impulsi suicidari).

«Sei una di noi?» È questo che una paziente di Marsha Linehan voleva sapere dalla sua terapeuta. «Se tu lo fossi daresti a noi una grande speranza». Fu quella la prima volta in cui la madre della DBT raccontò pubblicamente di soffrire anche lei di disturbo borderline.

«Onestamente, nel periodo passato all’istituto psichiatrico non realizzavo che stavo combattendo contro me stessa. Ma è probabilmente vero che ho sviluppato una terapia che fornisce ciò di cui io ho avuto bisogno per molti anni e che non ho mai ricevuto».