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Posts tagged as “Disturbo borderline di personalità”

Arriviamo puntuali ad un appuntamento che non ci eravamo dati

“Arriviamo puntuali ad un appuntamento che non ci eravamo dati”. Una frase che è come un fulmine: non potremmo descrivere meglio la sensazione che si prova quando il dolore entra nella tua vita. In particolare quando questo dolore riguarda i tuoi figli, tuo figlia o tua figlia che, improvvisamente, comincia a stare male. “A dare i numeri” come si dice di solito.

Adolescenza?

Adolescenza? Molto spesso è questa l’età d’esordio dei disturbi borderline di personalità e comunque questa è spesso l’età in cui se c’è stato qualcosa che ha fatto attrito nella crescita non rimane più in sottofondo ma esplode con tutta la sua violenza, la violenza dell’impulsività. Nel disturbo borderline di personalità questa violenza ha anche una base fisiologica: un’amigdala iper-attivata e una corteccia pre-frontale, sede dei pensieri riflessivi, invece non accessibile. È, per usare una metafora di Valerie Porr, come guidare una macchina con l’acceleratore al massimo (l’amigdala) e senza freni (la corteccia non accessibile). Certamente prima o poi ti fai male. E prima o poi fai male a qualcuno, più facile che fai male a qualcuno che ami che ad un estraneo. Perché? Perché molto spesso le persone con disturbo borderline hanno una competenza apparente che li rende adeguati nelle situazioni pubbliche e dis-regolati in quelle private.

Cosa succede quando un figlio sta male?

Quello che succede di solito quando un figlio sta male emotivamente è che inizia la caccia al colpevole e spesso inizia anche il circolo dei sensi di colpa. Sensi di colpa che fanno oscillare tra comportamenti iper-compensativi ed esplosioni distruttive dalle quali non si riesce ad uscire. E una delle ragioni per cui non si riesce ad uscire è che tutta l’attenzione è su chi sta male dimenticando che quando un figlio sta male tutta la famiglia si ammala e nel suo ammalarsi può finire per contribuire al mantenimento o peggioramento del disagio emotivo. Anche questo un circolo vizioso che rischia di aumentare il senso di impotenza e frustrazione. Cosa possiamo fare? Questa è la domanda che si fanno i genitori, una domanda a cui spesso dimentichiamo non solo di dare risposta ma anche di dare ascolto perché, il malato, è il figlio, la figlia, o come si dice nell’approccio sistemico-familiare, il “paziente designato”

Imparare un altro linguaggio

Valerie Porr cerca di rispondere a queste domande e lo fa con un linguaggio che arriva esattamente dove deve arrivare. Un linguaggio semplice e pratico insieme. Immagina di andare in un paese di cui non conosci la lingua. Devi comunicare e per farlo è necessario imparare i rudimenti di questa lingua nuova e sconosciuta. Non puoi pretendere che ti capiscano, né imporre la tua lingua come standard minimo di comunicazione. Per uscire dall’isolamento è necessario imparare quel linguaggio nuovo e diverso.

Le persone con disturbo borderline parlano una lingua che i genitori non capiscono e che spesso ritengono incomprensibile, inadeguata e sbagliata. Fino a che non imparano a trovare un linguaggio comune si scontrano con l’ isolamento: i figli sono isolati nel loro dolore, i genitori nel proprio e, invece che avvicinarsi si scontrano cercando di trovare una connessione perduta. Come ristabilire la connessione? Valerie Porr indica una strada fatta di alcuni passi che fanno parte del percorso della DBT (Terapia Dialettico-Comportamentale). Questi passi, senza entrare nello specifico della DBT, sono utili sempre, anche quando il problema non è un disturbo come quello borderline di personalità. Sono passi che aiutano quando il dolore  ci mette in una condizione di isolamento. Perché più la difficoltà è forte e più possiamo sentirci isolati, anche di fronte a persone che, attorno a noi, desiderano aiutarci e non sanno come fare per raggiungerci.

Siamo in territorio straniero

Quando abbiamo un problema forse la prima cosa è accettare che stiamo entrando in un territorio straniero. Un territorio dove le nostre competenze abituali non sono più così accessibili perché la rabbia, la paura e il dolore aumentano le risposte impulsive e diminuiscono la capacità di riflettere (e rimuginare non è riflettere). In una parola il dolore fa da interruttore d’accensione delle difese e le difese, molto spesso fanno più danno che altro, diminuendo la capacità di entrare in contatto con chi ci sta di fronte: ecco perché ci sentiamo isolati.

Pensare di essere in un territorio straniero ha un enorme vantaggio: ci mette in una posizione antropologica e ci toglie dalla posizione clinica. Siamo alla scoperta di un’altra “cultura” e non di una “malattia”. Spesso la diversità è stata patologizzata perché sovverte la cultura di riferimento, lo stile familiare, le aspettative sociali e non ci fa fare invece lo sforzo di domandarsi: come posso capire le norme della cultura straniera che ho incontrato? E, a questo proposito, il linguaggio di chi cura può essere una difficoltà in più. Imponiamo il nostro gergo psicologico, adatto nella tribù degli psicologi ma non adatto a tutte le tribù. Forse dovremmo darci la regola del 10% e non superare questa soglia di parole tecniche, verificando che siano state spiegate e comprese.

Riportare il dialogo per riportare la connessione

Può succedere di stare male e di non capire il proprio stato emotivo – per chi soffre di un disturbo borderline di personalità questa è la condizione quotidiana – questo rende la comunicazione frustrante e frammentata. Se ti senti in colpa per quello che sta succedendo ti metti in una doppia condizione di frustrazione e sono due le persone che devi salvare: te stesso e l’altra persona. Te stesso perché devi trovare il modo di rassicurarti che non è colpa tua ( e spesso il modo è dire che è colpa dell’altro) e l’altro perché sta male: è un compito soverchiante. Per usare sempre una metafora usata da Valerie Porr è come sentire una persona che ami urlare di dolore in una stanza di cui non hai la chiave. Ad un certo punto questo ti fa impazzire. Dobbiamo trovare la chiave e la chiave è la validazione.

Ecco che arriva la parola tecnica: validazione

Cos’è la validazione? È un termine tecnico – come vedi ogni tanto questi termini tecnici dobbiamo usarli –  che significa riconoscere all’altro il diritto di provare quello che prova. Sembra facile ma non lo è perché, appunto, abbiamo l’interferenza del senso di colpa, della rabbia, del dolore, della paura. Ma, soprattutto, abbiamo una terribile confusione di base tra le emozioni e i comportamenti collegati alle emozioni.

Tutte le emozioni che ci mettono in difesa attivano l’amigdala e fin qui niente da dire se non fosse che, se l’attivazione è intensa, diventano anche impulsi all’azione. Gli impulsi all’azione sono duri, difficili da gestire se non siamo consapevoli. Se siamo consapevoli possiamo distinguere l’emozione che proviamo dal comportamento che ci spingerebbe ad agire. Pratichiamo pausa – come diciamo nella mindfulness – diventiamo consapevoli della nostra emozione, la validiamo, ossia riconosciamo il nostro diritto a provarla e poi scegliamo come agire. Questo processo non deve farlo solo chi sta male ma sia chi sta male che la persona che vuole prestare soccorso. E già questo può non essere facilmente comprensibile per un genitore perché il genitore vuole rispondere subito, immediatamente, al dolore del figlio. Anzi a volte non vorrebbe che nemmeno conoscesse il dolore e il figlio potrebbe non essere in grado di farlo. Per l’intensità del suo dolore, per inesperienza, perché ha una soglia alta di frustrabilità ossia è molto sensibile e anche piccoli dolori hanno grande risonanza. Insomma chi ha più saggezza la usi: la validazione è la chiave che apre la porta, che rompe l’isolamento e la disconnessione, che separa il diritto a provare un’emozione e sospende il giudizio sul comportamento rispetto al quale probabilmente avremmo molto da ridire

Gli ingredienti della validazione

La validazione è un ascolto generoso che è fatto da tre ingredienti principali: essere simpatetici, compassionevoli ed empatici. Essere simpatetici significa essere sensibili alle sensazioni altrui. Spesso le persone altamente sensibili sono sensibili solo alle proprie sensazioni e quindi diventa difficile per loro usare proprio questa loro grande qualità: la sensibilità. Le persone simpatetiche invece sanno riconoscere velocemente le sensazioni degli altri. Essere simpatetici richiede anche una qualità: non aggiungere la propria sensibilità alla sensazione dell’altro. Io sento il tuo disagio ma rimane il tuo disagio e non “io sento il tuo disagio e ci metto sopra una spolverata del mio disagio per il tuo disagio” come facciamo più frequentemente quando è una persona che amiamo a soffrire.

La compassione è sia uno stato mentale – che possiamo coltivare attraverso la pratica di mindfulness – che un’emozione che sorge quando ci permettiamo di sentire il dolore, nostro e altrui. Ecco perché le difese non aiutano: servono per ridurre la percezione del dolore e, conseguentemente, riducono anche la possibilità di provare compassione e self-compassion. Sviluppare la compassione non è facile e nemmeno automatico: richiede impegno e pratica perché la prima risposta, istintiva, è quella di difenderci dal dolore ma questa difesa aumenta il senso di isolamento e dis-connessione e, nel lungo periodo non offre vantaggi. Il problema è che nell’immediato la difesa può sembrare molto efficace. Mi dà fastidio qualcosa ed evitandola il fastidio diminuisce fino a scomparire. Peccato che rimanga come un fuoco che cova sotto la cenere. La compassione può suscitare rabbia. Rabbia perché vediamo il pericolo che corre la persona che amiamo ma quella rabbia è salutare perché alimenta il desiderio di proteggere. È quella che ci spinge ad essere attivi nella ricerca di soluzioni, è quella che ci fa rimanere svegli per curare qualcuno o che ci rende vigili nelle situazioni difficili ed è diversa dalla rabbia difensiva: è premura e non preoccupazione.

L’empatia è la capacità di mettersi nei panni dell’altro ed è diversa dalla compassione. Nell’empatia “sappiamo cosa prova l’altro”. Nella compassione proviamo il desiderio di alleviare la sofferenza dell’altro. Abbiamo bisogno di essere empatici per riconoscere la sofferenza dell’altro oltre che simpatetici. L’empatia riconosce lo stato mentale, l’essere simpatetico le sensazioni fisiche ed emotive. La validazione riconosce, tutto insieme, il diritto dell’altro di provare l’emozione che prova. Un’emozione che può essere nascosta sotto un comportamento opposto: c’è dolore ma mostra rabbia. C’è bisogno di connessione ma mostra desiderio di isolarsi. La validazione distingue tra il diritto di provare quello che si prova e il comportamento, senza entrare nella riprovazione del comportamento. Bene allora tutto chiaro, no?

Non è facile essere contro-intuitivi

Non è facile essere contro-intuitivi e la validazione ci chiede di farlo. Di andare oltre al comportamento manifesto che può essere molto discutibile e di vedere l’emozione sta sotto il dolore. Di imparare a riconoscere gli interruttori di quella reattività e, soprattutto ci chiede di non essere reattivi. Questa è la prima grande difficoltà della validazione. Ci chiede di essere così consapevoli di noi e dei nostri stati mentali da non diventare reattivi nemmeno di fronte alle provocazioni più intense. È per questo che la mindfulness è così importante: coltiva, attraverso la consapevolezza e la pratica, la capacità di rispondere e non reagire. Coltiva la capacità di prendersi cura del proprio dolore

La validazione attiva anche un paradosso: va male ma non voglio cambiarti e non ti amo perché tu cambi. Ti amo e ti accetto così come sei, senza speranza e senza disperazione. Quante volte possiamo dire di amare senza metterci il desiderio che il risultato del nostro amore sia il cambiamento? Quante volte interpretiamo il fatto che l’altro non cambi come un segno di non amore? Quante volte il fatto che nostro figlio, nostra figlia abbia dei problemi è vissuto come un fallimento della nostra genitorialità?

Non è facile essere contro-intuitivi. Significa vedere risorse dove ci sono problemi, possibilità dove ci sono limiti e non cercare la via d’uscita da quell’appuntamento che non sapevamo di esserci dati e al quale arriviamo puntuali e impreparati.

L’articolo è uscito in originale sul sito Bioenergetica e Mindfulness di Nicoletta Cinotti.

Ph: Photo by Nick Fewings on Unsplash 

Esce in Italia il libro più diffuso negli USA per i familiari di persone con disturbo borderline

È uscito da poco per Erickson il volume “Superare il disturbo borderline di personalità” di Valerie Porr, fondatrice dell’onlus internazionale TARA (Treatment And Research Advancements for Borderline Personality Disorder): non un testo accademico, ma una vera e propria Guida pratica per familiari e clinici, come recita il sottotitolo. altrimenti ne ha parlato con le due curatrici dell’edizione italiana: Elisabetta Pizzi, psicologa e psicoterapeuta DBT, e Francesca Gallini, pediatra e docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.

Elisabetta, cominciamo con lo spiegare che cos’è il disturbo borderline di personalità.

EP: Il disturbo borderline di personalità è essenzialmente un disturbo del sistema emotivo: le persone che presentano questa diagnosi hanno una vulnerabilità emotiva, su base biologica, che consiste nell’avere emozioni molto più intense degli altri e grande difficoltà nel gestirle, ad esempio difficoltà a tornare calmi se si arrabbiano, a placare l’agitazione se sono particolarmente ansiosi o a riattivarsi se sono depressi o tristi. La difficoltà di cui parliamo è appunto biologica e le persone che soffrono del disturbo senza un trattamento specifico non riescono a gestire questa parte emotiva, pur  desiderandolo intensamente:  hanno assoluto  bisogno di un allenamento psicologico mirato ad  abbassare l’intensità delle loro emozioni.

Un’altra caratteristica è che le persone con disturbo borderline di personalità si attivano con pochissimo: a volte basta anche lo sguardo di una persona che magari per motivi propri è arrabbiata per farli sentire rifiutati o attaccati. È come se vivessero faticosamente in un mondo che attiva tanti stimoli e da cui in qualche modo si devono difendere, è come se avessero continue esplosioni emotive interne che possono portarli ad avere molti problemi relazionali. Il dolore che questi pazienti provano a volte arriva a essere così intenso da far nascere in loro idee suicidarie e comportamenti autolesivi o parasuicidari (ovvero comportamenti che non sono finalizzati a uccidersi ma che possono comunque portare alla morte, come guidare sotto l’effetto di stupefacenti o alcol e tagliarsi le braccia). Questa vulnerabilità emotiva li porta a essere molto impulsivi.  Una delle emozioni che gestiscono con più difficoltà è la rabbia, per cui a volte hanno degli scatti d’ira violenti; oppure sperimentano stati di solitudine fortissima, anche se si trovano in presenza di altre persone, o di vera e propria angoscia se devono esporsi in situazioni di performance. Per tutti questi motivi faticano ad avere relazioni, anche perché nei momenti di crisi possono arrivare ad avere comportamenti aggressivi nei confronti dei loro familiari, che vivono a loro volta in uno stato di grande sofferenza.

Da che età si può cominciare a parlare di disturbo border?

EP: Tradizionalmente i protocolli medici imponevano che la diagnosi si facesse solo dopo i 18 anni, ma da un po’ di tempo esperti soprattutto statunitensi hanno iniziato a parlare di diagnosi precoce, anticipandola anche all’inizio dell’adolescenza. Oggi si incentiva proprio la diagnosi precoce, per poter intervenire prima possibile e prevenire il carico di sofferenza che altrimenti questi pazienti sono destinati ad accumulare negli anni. Se parliamo di vulnerabilità genetica, probabilmente si potrebbero vederne i sintomi fin dall’infanzia, ma non ci sono ancora studi evidence based che dimostrino quali tipologie di vulnerabilità infantile possono portare allo sviluppo del disturbo borderline. Guardando ai dati, in Italia non esistono studi epidemiologici specifici, ma gli studi internazionali indicano un tasso di incidenza del disturbo border fra l’1 e il 5%. Numeri molto significativi, insomma.

Il lavoro di Valerie Porr è molto noto negli Stati Uniti, ma ancora non Italia: Francesca, come avete incontrato questo libro e perché è importante averlo tradotto?

FG: Me ne parlò tempo fa un familiare di Genova, Barbara Corbin: quando l’ho letto per la prima volta in inglese ne sono rimasta folgorata. Finalmente un libro che insegnava ai genitori, con un linguaggio chiaro per non addetti ai lavori e ricco di esempi pratici, che cos’è questo disturbo e come gestirlo. Con Elisabetta e altre mamme di Genova ci siamo presto rese conto che in italiano non esisteva niente di simile e che dunque era necessario venire incontro al bisogno di tanti pazienti e delle loro famiglie, dando loro soprattutto la speranza che si può per davvero stare meglio. Il concetto alla base del volume è che intorno alla persona che soffre c’è un’intera famiglia che soffre e di cui nessuno si occupa. Inoltre, se si fanno dei trattamenti sui pazienti molto gravi che vivono in casa o sugli adolescenti senza integrare la famiglia, si rischia che siano quasi inefficaci: dunque, se si vuole curare i pazienti border, diventa fondamentale prendersi carico anche delle loro famiglie. Valerie Porr racconta poi molto bene perché spesso i familiari delle persone con il disturbo borderline di personalità hanno difficoltà ad essere credute e capite dagli amici o altri familiari. Spiega infatti che i border possono avere una “competenza apparente”: in alcuni ambienti (come la scuola o il lavoro) funzionano sufficientemente bene, mentre a casa, in un ambiente emotivamente più coinvolgente, tirano fuori tutti i loro sintomi. E spesso i familiari, che hanno a che fare con loro in questi momenti di disregolazione, se parlano con persone esterne, hanno la sensazione di inventarsi le cose.  Innanzitutto quindi leggere nero su bianco che non sono soli e che la loro esperienza è condivisa da molte altre persone può dare a questi familiari immediato sollievo.

Valerie Porr insegna ai genitori delle tecniche per la gestione del disturbo border basate su due metodologie scientificamente riconosciute: la DBT e il trattamento basato sulla mentalizzazione. Di che si tratta?

EP: È un punto molto importante. Per quanto riguarda la DBT, ideata da Marsha Linehan, è attualmente uno dei trattamenti più diffusi ed efficaci del disturbo border, con più di 20 studi di efficacia (contro i 2-3 degli altri trattamenti). Un elemento chiave di questa terapia è lo sviluppo della capacità di accettare la vita così come è. L’“accettazione” è qualcosa che devono imparare in primo luogo i pazienti stessi, che purtroppo si trovano a dover accogliere un passato e un presente di profonda sofferenza e un futuro spesso molto incerto, ma Marsha Linehan ribadisce anche l’importanza di insegnare l’accettazione ai terapeuti, che devono a loro volta accettare i comportamenti difficili di questi pazienti (che possono essere anche molto aggressivi nei loro confronti, non venire alle sedute, rifiutarsi di pagare e così via), senza essere punitivi e puntando invece alla comprensione dei meccanismi che li mantengono e al cambiamento in base a dei tempi realistici.  

Il trattamento basato sulla mentalizzazione si fonda invece sugli studi degli inglesi Peter Fonagy e Antony Bateman (2004), secondo cui chi ha un disturbo border non ha sviluppato un’adeguata capacità riflessiva sui propri pensieri ed emozioni e su quelli degli altri. Secondo questi scienziati per curare il disturbo borderline è necessario insegnare ai pazienti a riflettere sui propri pensieri ed emozioni e sui fraintendimenti che possono nascere a livello relazionale con gli altri. Anche questo trattamento è risultato efficace dal punto di vista scientifico. Su presupposti in parte simili si basa anche la terapia metacognitivo-interpersonale, un trattamento tutto italiano, anch’esso studiato scientificamente e con prove di efficacia, che è stato sviluppato qualche anno prima rispetto agli studi di Bateman e Fonagy presso il Terzo Centro di Psicologia Cognitiva, un centro clinico e di ricerca di eccellenza per la cura dei disturbi di personalità che ha sede a Roma. Anche secondo questi studiosi, quindi, riuscire a stimolare un pensiero consapevole sui propri impulsi aiuta a ridurre la reattività emotiva delle persone.
Basandosi su questo tipo di studi, Valerie Porr aiuta i familiari a usare modalità più riflessive nell’analisi delle situazioni relazionali con i loro figli, stimolando la capacità di  “mentalizzazione” dei genitori.  

Da quanto descrivete sembra che il libro possa essere una guida fondamentale per chiunque vive con una persona con disregolazione emotiva…

FG: Proprio così: tuttavia può essere di grande aiuto anche per chi sta accanto a una persona traumatizzata, per farla vivere in un ambiente meno sollecitante dal punto di vista della riattivazione relazionale. In generale è un libro molto utile per tutti i familiari che si rapportano a un proprio caro con disregolazione emotiva, ossia con chi ha delle emozioni molto forti, che sia una persona traumatizzata o con disturbo bipolare o con disturbo borderline. Addirittura si potrebbe dire che è un libro utile a tutti: le tecniche che insegna, dalla validazione all’accettazione radicale e alla mentalizzazione, servono a ognuno di noi nel quotidiano, col collega nervoso, con la cameriera al ristorante che è troppo indaffarata per vederti, con  l’automobilista disattento che ti viene addosso con la macchina. Del resto, forme di disregolazione emotiva dovute anche a dei piccoli traumi possiamo averle tutti, dipende da ciò che ci accade nella vita.

Se doveste indicare il concetto di questo libro che volete arrivi a più persone possibile, quale sarebbe?

FG: Cito una frase secondo me illuminante: “Con i vostri cari dovete decidere se avere ragione o essere efficaci”. Nel senso che è più importante trovare un modo di entrare in relazione con gli altri e riuscire a farsi capire piuttosto che intestardirsi cercando di dimostrare di avere ragione. Quello che conta è ottenere il risultato e aiutare il nostro familiare in difficoltà.

EP: A mio parere è fondamentale che i genitori imparino a esigere terapie evidence-based per i loro figli. Può sembrare assurdo, ma ancora da troppe parti vengono impiegate cure che non sono verificate scientificamente. Spero che la lettura di questo libro aiuti le famiglie a fare domanda di cure davvero adeguate e convalidate, in modo da obbligare i servizi sanitari a dare risposte altrettanto adeguate.

Ph: Porcellane “kintsugi”, antica arte giapponese che consiste nel riparare oggetti con la polvere d’oro.

 

Anche solo per cinque minuti: la storia di Andrea

Disturbo borderline della personalità: sono parole che fanno pensare a un forte disagio mentale e suggeriscono l’immagine di una persona in gravi difficoltà. Io vorrei raccontarvi molto semplicemente la mia esperienza di paziente.

Un bambino e un adolescente irrequieto

Sin da bambino frequentavo gli psicologi infantili: a scuola ero disattento e molto irrequieto, tanto che mi fecero fare il test per il disturbo dell’attenzione, ma i risultati non evidenziarono nulla in particolare. A mio padre dissero che l’irrequietezza poteva essere causata da circostanze ambientali di forte stress: ho avuto un’infanzia dolorosa e difficile, la famiglia dal lato di mia madre è sempre stata disfunzionale, complessa, con relazioni conflittuali molto violente.

Quando poi arrivai all’adolescenza iniziai a soffrire intensamente di disturbi depressivi che si riflettevano anche nella sfera psicosomatica. Avevo forti mal di testa, difficoltà respiratorie (dispnea) e nausea. Erano sensazioni di malessere che portavo con me costantemente, anche a scuola e nella vita di tutti i giorni. Iniziai un primo approccio psicoterapeutico che però abbandonai presto: era troppo difficile per me all’epoca affrontare quel disagio così profondo.

Spesso quando parlo del mio disturbo all’esterno, specie se a persone non adeguatamente informate in materia, mi rendo conto che molti credono che essere borderline significhi avere una personalità multipla o essere una persona in qualche modo fuori controllo. La verità è che per gran parte della mia vita avrei voluto solo essere trattato come chiunque altro e questo purtroppo non sempre è avvenuto: avevo crisi di rabbia e profondi malesseri che nel mondo esterno erano negati o rifiutati, con la conseguenza di aggravare il problema anziché risolverlo. Per questa ragione ho dovuto lottare molto per far rispettare il mio disagio, spesso in un contesto sociale che raramente ancora oggi riconosce le difficoltà per quello che sono, senza giudicare.

Da adolescente mi affascinava il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer che vedeva l’esistenza umana come un’oscillazione continua fra noia e sofferenza, e sosteneva che il piacere fosse l’assenza del dolore. Un altro scrittore che negli anni mi ha molto colpito è stato il poeta tedesco Novalis, per il quale «bisognerebbe essere orgogliosi del proprio dolore, ogni dolore ci rammenta il nostro alto livello», e sono assolutamente d’accordo, perché ricordiamoci che il nostro malessere è l’espressione di un’elevata attitudine creativa e sensibilità. Sin da bambino ero infatti molto creativo, a otto anni iniziai a suonare il pianoforte e ora sono un musicista. Si può dire che la musica e la poesia mi abbiano davvero salvato la vita. Per questo motivo tanti di noi che stanno male per disturbi depressivi a mio parere di paziente dovrebbero provare, senza giudizio ed eccessiva competizione, a incanalare le loro risorse in attività costruttive che possano dar loro un po’ di soddisfazione personale. L’ansia, la paura, la rabbia sono tutte manifestazioni della nostra energia interiore, della spinta alla sopravvivenza che ci mantiene legati all’esistere.

La terapia: un lavoro di alti e bassi, traguardi e delusioni

A vent’anni ebbi le prime crisi di panico, facevo dentro e fuori dagli ospedali, convinto ogni volta come la prima di essere in fin di vita, tormentato dal senso di colpa per non riuscire a migliorare le mie condizioni. Furono però proprio queste crisi a farmi riprendere la psicoterapia che avevo interrotto. Inizialmente mi sentivo sotto esame e spesso avevo la sensazione che la cura non funzionasse, anche perché in famiglia ricevevo spesso svalutazioni rispetto a me stesso e alla terapia; solo con molta fatica sono riuscito nel tempo ad aiutare le persone intorno a me, e specialmente me stesso, a riconoscere il mio malessere senza condannarlo. Perciò senza timore dobbiamo a ogni costo cercare di sopravvivere al dolore, perché quella sofferenza ci sta parlando e sta raccontando la nostra storia e i nostri bisogni primari di esseri umani. Non stiamo decidendo di abbandonare la depressione, ma di farla nostra, raggiungendo una consapevolezza di noi stessi tale da permetterci di migliorare la qualità della nostra vita. Questo, infatti, è ciò che ho raggiunto dopo tanti anni di terapia: è stato un lavoro di alti e bassi, grandi traguardi e delusioni, sofferenza ma anche tanta creatività.

Le risorse nascoste dentro

Potrei dire che ormai sono anche un po’ affezionato a quel magone che sento alla bocca dello stomaco, sono quasi affascinato dalla mia inquietudine. Potrà sembrare qualcosa di ambiguo, ma è stato il modo con cui personalmente sono riuscito a stare meglio. Lo scopo della mia vita è diventato guardare avanti, rimanendo legato al momento presente e sopravvivere senza dimenticare l’amore per me stesso. Tutti, con un po’ di lavoro su di noi, possiamo scoprire di avere delle risorse nascoste dentro, come la nostra stessa sofferenza, forse la più grande forza che abbiamo, quella che ci permette di lottare, vincendo ogni giorno una nuova piccola battaglia, fino alla fine della guerra. Quando stavo molto male, per aiutarmi a stare meglio mentre ero a letto in preda ai miei disturbi, mi ripetevo di alzarmi anche solo per andare in bagno, anche soltanto per bere un po’ d’acqua. Solo il fatto di stare in piedi per quei cinque minuti sarebbe stato il più grande risultato della mia vita.

 

 

I benefici della mindfulness nelle neuroimmagini

La pratica della mindfulness è un compito che, come sa bene ogni meditatore soprattutto alle prime armi, richiede sforzo cognitivo e attenzione: ma fin da subito può contribuire a ridurre il vagabondare della mente (mind-wandering) e i rimuginii mentali rivolti al passato o al futuro, consentendo ai praticanti di rimanere maggiormente aderenti all’esperienza del momento presente.

Infatti, quando la mente divaga sembrano attivarsi le strutture cerebrali responsabili del ricordo degli eventi passati e dell’immaginazione di quelli futuri (corteccia cingolata posteriore, corteccia prefrontale mediale, giro paraippocampale e le cortecce posteriori/laterali temporali e parietali), contribuendo a formare il cosiddetto sistema Mental Time Travel, che permette agli esseri umani di viaggiare mentalmente nel tempo. Pare che tale sistema neuropsicologico possa essere attivato in modo automatico e inconsapevole dalle persone, contribuendo alla disposizione della mente a perdersi nel flusso temporale dei pensieri e degli scenari che spesso alimentano sofferenza psicologica e sintomi ansioso-depressivi. In effetti studi neuropsicologici e in particolare di neuroimmagini hanno documentato una correlazione tra la riduzione del mind wandering e la ruminazione grazie alla pratica meditativa e riduzione dei sintomi ansioso depressivi.

Dal punto di vista delle neuroimmagini, poi, è stata osservata una correlazione tra meditazione mindfulness e aumento della densità e volume della sostanza grigia a livello della corteccia pre frontale dorsale, della corteccia temporale, dell’ippocampo, della corteccia cingolata e dell’insula. I cambiamenti hanno riguardato anche strutture sottocorticali come il putamen e il cervelletto. Inoltre, l’effetto della pratica meditativa sembra produrre minore perdita di sostanza grigia cerebrale con l’avanzare dell’età.

La regolazione delle emozioni

Entriamo più nello specifico. Con la mindfulness si impara a stabilire un distacco rispetto alle proprie reazioni emotive senza fondersi o farsi sopraffare da esse. Ne consegue minore reattività emotiva e maggiori capacità di “fare fronte” (coping) rispetto alle emozioni disturbanti. È possibile pertanto che la meditazione migliori la capacità di sganciarsi dai meccanismi che portano ad associare stati d’animo negativi a determinate esperienze, sostituendoli con altri stati d’animo più positivi e riducendo così rimuginii mentali e reattività emotiva.

Recenti studi di neuroimmagini hanno verificato che meditatori esperti presentano una riduzione dell’attivazione di alcune aree cerebrali (in particolare, delle aree pre frontali) durante l’esposizione di immagini con un certo contenuto emotivo, e cambiamenti strutturali in alcune regioni cerebrali (come la corteccia pre frontale ventro mediale e l’ippocampo), cruciali nell’inibizione di risposte comportamentali condizionate dalla paura.

In definitiva, gli studi di neuroimmagini hanno confermato che, mentre un soggetto non esperto di meditazione, metterebbe in atto meccanismi di controllo top-down (quindi dall’alto verso il basso) sull’esperienza sensoriale, durante la regolazione delle emozioni, un soggetto esperto di meditazione potrebbe non aver bisogno di una regolazione e di un controllo attivo per gestire le risposte emotive, avendo maggiormente automatizzato una risposta di tipo bottom up (quindi dal basso verso l’alto) di minore reattività e di maggiore accettazione dell’esperienza emotiva positiva o negativa, legata al qui e ora.

Questi risultati sono la base teorica dell’impiego di queste tecniche meditative negli approcci di psicoterapia cognitivo comportamentale di “terza generazione” basati sulla mindfulness, come la DBT, ideata e sviluppata da Marsha Linehan, che si è mostrata efficace per problemi di disregolazione emotiva e difficoltà nel controllo degli impulsi, in particolare per il Disturbo Borderline di Personalità, promuovendo una minore reattività emotiva e nuovi schemi comportamentali e azioni più flessibili ed efficaci.

La consapevolezza del corpo

La pratica meditativa segnala l’importanza della consapevolezza diretta del corpo, senza intermediari. Si tratta di prendere un contatto diretto con le sensazioni del proprio corpo, dal momento che l’attenzione non giudicante applicata alle sensazioni corporee ha un importante potere trasformante, cosicché una maggiore consapevolezza delle proprie emozioni aiuta a regolare meglio tensioni e malesseri, che solitamente si realizzano con sintomi corporei.

Gli studi di neuroimmagini hanno documentato cambiamenti strutturali consistenti a livello di alcune regioni cerebrali (in particolare, insula, della corteccia somato sensoriale e a livello della giunzione temporo parietale) che giocano un ruolo cruciale nella percezione degli stati interni del corpo e delle sensazioni provenienti dal mondo esterno.

La rappresentazione del sé

Studi neuropsicologici hanno attestato come la prativa meditativa costante aiuti a ridurre i tratti caratteriali di nevroticismo (scarsa resistenza a stress di tipo emotivo, tendenza all’ansietà e irritabilità) e a migliorare i livelli di coscienziosità (affidabilità e responsabilità nel comportamento di un individuo, nonché la sua autodisciplina e la sua perseveranza). Inoltre, individui esperti di meditazione sembrano essere in grado di impegnarsi in un’analisi della realtà sensoriale più distaccata ed oggettiva, riuscendo a lasciar andare una elaborazione degli stimoli maggiormente condizionata da stati d’animo soggettivi.

In definitiva, grazie alla mindfulness, il paziente sviluppa un maggiore distacco dai propri contenuti di pensiero e abbraccia una visione di sé più dinamica e aderente alla realtà.

Mindfulness e compassione

La mindfulness presenta numerosi ulteriori benefici. In primo luogo, aiuta ad affrontare meglio il dolore inevitabile o il senso di fallimento che si sperimenta nella vita, che quindi non viene amplificato e perpetuato attraverso una dura autocritica, praticando una gentilezza amorevole verso se stessi. In secondo luogo, riduce l’egocentrismo alla base della sensazione separativa di isolamento dal resto dell’umanità, aumentando invece la sensazione di interconnessione. Inoltre, tenere presente che la sofferenza e il senso di fallimento accadono a tutte le persone, aiuta a contestualizzare la propria esperienza in una prospettiva più ampia e sviluppa la capacità di porre attenzione in modo consapevole ai propri pensieri ed emozioni, senza identificarsi eccessivamente con essi.   

Questi risultati hanno condotto, tra l’altro, all’elaborazione della Compassion Focused Therapy (CFT), una terapia strutturata su interventi cognitivo-comportamentali, sull’importanza della relazione terapeutica e sull’uso della mindfulness in ambito clinico.

Fonti: La neuroscienza della mindfulness, di Fabio D’Antoni, Cristiano Crescentini, Alberto Chiesa in Il Cervello che cambia. Neuro-imaging: il contributo alle neuroscienze, a cura di Marco Pagani e Sara Carletto, Mimesis