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Esce in Italia il libro più diffuso negli USA per i familiari di persone con disturbo borderline

È uscito da poco per Erickson il volume “Superare il disturbo borderline di personalità” di Valerie Porr, fondatrice dell’onlus internazionale TARA (Treatment And Research Advancements for Borderline Personality Disorder): non un testo accademico, ma una vera e propria Guida pratica per familiari e clinici, come recita il sottotitolo. altrimenti ne ha parlato con le due curatrici dell’edizione italiana: Elisabetta Pizzi, psicologa e psicoterapeuta DBT, e Francesca Gallini, pediatra e docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.

Elisabetta, cominciamo con lo spiegare che cos’è il disturbo borderline di personalità.

EP: Il disturbo borderline di personalità è essenzialmente un disturbo del sistema emotivo: le persone che presentano questa diagnosi hanno una vulnerabilità emotiva, su base biologica, che consiste nell’avere emozioni molto più intense degli altri e grande difficoltà nel gestirle, ad esempio difficoltà a tornare calmi se si arrabbiano, a placare l’agitazione se sono particolarmente ansiosi o a riattivarsi se sono depressi o tristi. La difficoltà di cui parliamo è appunto biologica e le persone che soffrono del disturbo senza un trattamento specifico non riescono a gestire questa parte emotiva, pur  desiderandolo intensamente:  hanno assoluto  bisogno di un allenamento psicologico mirato ad  abbassare l’intensità delle loro emozioni.

Un’altra caratteristica è che le persone con disturbo borderline di personalità si attivano con pochissimo: a volte basta anche lo sguardo di una persona che magari per motivi propri è arrabbiata per farli sentire rifiutati o attaccati. È come se vivessero faticosamente in un mondo che attiva tanti stimoli e da cui in qualche modo si devono difendere, è come se avessero continue esplosioni emotive interne che possono portarli ad avere molti problemi relazionali. Il dolore che questi pazienti provano a volte arriva a essere così intenso da far nascere in loro idee suicidarie e comportamenti autolesivi o parasuicidari (ovvero comportamenti che non sono finalizzati a uccidersi ma che possono comunque portare alla morte, come guidare sotto l’effetto di stupefacenti o alcol e tagliarsi le braccia). Questa vulnerabilità emotiva li porta a essere molto impulsivi.  Una delle emozioni che gestiscono con più difficoltà è la rabbia, per cui a volte hanno degli scatti d’ira violenti; oppure sperimentano stati di solitudine fortissima, anche se si trovano in presenza di altre persone, o di vera e propria angoscia se devono esporsi in situazioni di performance. Per tutti questi motivi faticano ad avere relazioni, anche perché nei momenti di crisi possono arrivare ad avere comportamenti aggressivi nei confronti dei loro familiari, che vivono a loro volta in uno stato di grande sofferenza.

Da che età si può cominciare a parlare di disturbo border?

EP: Tradizionalmente i protocolli medici imponevano che la diagnosi si facesse solo dopo i 18 anni, ma da un po’ di tempo esperti soprattutto statunitensi hanno iniziato a parlare di diagnosi precoce, anticipandola anche all’inizio dell’adolescenza. Oggi si incentiva proprio la diagnosi precoce, per poter intervenire prima possibile e prevenire il carico di sofferenza che altrimenti questi pazienti sono destinati ad accumulare negli anni. Se parliamo di vulnerabilità genetica, probabilmente si potrebbero vederne i sintomi fin dall’infanzia, ma non ci sono ancora studi evidence based che dimostrino quali tipologie di vulnerabilità infantile possono portare allo sviluppo del disturbo borderline. Guardando ai dati, in Italia non esistono studi epidemiologici specifici, ma gli studi internazionali indicano un tasso di incidenza del disturbo border fra l’1 e il 5%. Numeri molto significativi, insomma.

Il lavoro di Valerie Porr è molto noto negli Stati Uniti, ma ancora non Italia: Francesca, come avete incontrato questo libro e perché è importante averlo tradotto?

FG: Me ne parlò tempo fa un familiare di Genova, Barbara Corbin: quando l’ho letto per la prima volta in inglese ne sono rimasta folgorata. Finalmente un libro che insegnava ai genitori, con un linguaggio chiaro per non addetti ai lavori e ricco di esempi pratici, che cos’è questo disturbo e come gestirlo. Con Elisabetta e altre mamme di Genova ci siamo presto rese conto che in italiano non esisteva niente di simile e che dunque era necessario venire incontro al bisogno di tanti pazienti e delle loro famiglie, dando loro soprattutto la speranza che si può per davvero stare meglio. Il concetto alla base del volume è che intorno alla persona che soffre c’è un’intera famiglia che soffre e di cui nessuno si occupa. Inoltre, se si fanno dei trattamenti sui pazienti molto gravi che vivono in casa o sugli adolescenti senza integrare la famiglia, si rischia che siano quasi inefficaci: dunque, se si vuole curare i pazienti border, diventa fondamentale prendersi carico anche delle loro famiglie. Valerie Porr racconta poi molto bene perché spesso i familiari delle persone con il disturbo borderline di personalità hanno difficoltà ad essere credute e capite dagli amici o altri familiari. Spiega infatti che i border possono avere una “competenza apparente”: in alcuni ambienti (come la scuola o il lavoro) funzionano sufficientemente bene, mentre a casa, in un ambiente emotivamente più coinvolgente, tirano fuori tutti i loro sintomi. E spesso i familiari, che hanno a che fare con loro in questi momenti di disregolazione, se parlano con persone esterne, hanno la sensazione di inventarsi le cose.  Innanzitutto quindi leggere nero su bianco che non sono soli e che la loro esperienza è condivisa da molte altre persone può dare a questi familiari immediato sollievo.

Valerie Porr insegna ai genitori delle tecniche per la gestione del disturbo border basate su due metodologie scientificamente riconosciute: la DBT e il trattamento basato sulla mentalizzazione. Di che si tratta?

EP: È un punto molto importante. Per quanto riguarda la DBT, ideata da Marsha Linehan, è attualmente uno dei trattamenti più diffusi ed efficaci del disturbo border, con più di 20 studi di efficacia (contro i 2-3 degli altri trattamenti). Un elemento chiave di questa terapia è lo sviluppo della capacità di accettare la vita così come è. L’“accettazione” è qualcosa che devono imparare in primo luogo i pazienti stessi, che purtroppo si trovano a dover accogliere un passato e un presente di profonda sofferenza e un futuro spesso molto incerto, ma Marsha Linehan ribadisce anche l’importanza di insegnare l’accettazione ai terapeuti, che devono a loro volta accettare i comportamenti difficili di questi pazienti (che possono essere anche molto aggressivi nei loro confronti, non venire alle sedute, rifiutarsi di pagare e così via), senza essere punitivi e puntando invece alla comprensione dei meccanismi che li mantengono e al cambiamento in base a dei tempi realistici.  

Il trattamento basato sulla mentalizzazione si fonda invece sugli studi degli inglesi Peter Fonagy e Antony Bateman (2004), secondo cui chi ha un disturbo border non ha sviluppato un’adeguata capacità riflessiva sui propri pensieri ed emozioni e su quelli degli altri. Secondo questi scienziati per curare il disturbo borderline è necessario insegnare ai pazienti a riflettere sui propri pensieri ed emozioni e sui fraintendimenti che possono nascere a livello relazionale con gli altri. Anche questo trattamento è risultato efficace dal punto di vista scientifico. Su presupposti in parte simili si basa anche la terapia metacognitivo-interpersonale, un trattamento tutto italiano, anch’esso studiato scientificamente e con prove di efficacia, che è stato sviluppato qualche anno prima rispetto agli studi di Bateman e Fonagy presso il Terzo Centro di Psicologia Cognitiva, un centro clinico e di ricerca di eccellenza per la cura dei disturbi di personalità che ha sede a Roma. Anche secondo questi studiosi, quindi, riuscire a stimolare un pensiero consapevole sui propri impulsi aiuta a ridurre la reattività emotiva delle persone.
Basandosi su questo tipo di studi, Valerie Porr aiuta i familiari a usare modalità più riflessive nell’analisi delle situazioni relazionali con i loro figli, stimolando la capacità di  “mentalizzazione” dei genitori.  

Da quanto descrivete sembra che il libro possa essere una guida fondamentale per chiunque vive con una persona con disregolazione emotiva…

FG: Proprio così: tuttavia può essere di grande aiuto anche per chi sta accanto a una persona traumatizzata, per farla vivere in un ambiente meno sollecitante dal punto di vista della riattivazione relazionale. In generale è un libro molto utile per tutti i familiari che si rapportano a un proprio caro con disregolazione emotiva, ossia con chi ha delle emozioni molto forti, che sia una persona traumatizzata o con disturbo bipolare o con disturbo borderline. Addirittura si potrebbe dire che è un libro utile a tutti: le tecniche che insegna, dalla validazione all’accettazione radicale e alla mentalizzazione, servono a ognuno di noi nel quotidiano, col collega nervoso, con la cameriera al ristorante che è troppo indaffarata per vederti, con  l’automobilista disattento che ti viene addosso con la macchina. Del resto, forme di disregolazione emotiva dovute anche a dei piccoli traumi possiamo averle tutti, dipende da ciò che ci accade nella vita.

Se doveste indicare il concetto di questo libro che volete arrivi a più persone possibile, quale sarebbe?

FG: Cito una frase secondo me illuminante: “Con i vostri cari dovete decidere se avere ragione o essere efficaci”. Nel senso che è più importante trovare un modo di entrare in relazione con gli altri e riuscire a farsi capire piuttosto che intestardirsi cercando di dimostrare di avere ragione. Quello che conta è ottenere il risultato e aiutare il nostro familiare in difficoltà.

EP: A mio parere è fondamentale che i genitori imparino a esigere terapie evidence-based per i loro figli. Può sembrare assurdo, ma ancora da troppe parti vengono impiegate cure che non sono verificate scientificamente. Spero che la lettura di questo libro aiuti le famiglie a fare domanda di cure davvero adeguate e convalidate, in modo da obbligare i servizi sanitari a dare risposte altrettanto adeguate.

Ph: Porcellane “kintsugi”, antica arte giapponese che consiste nel riparare oggetti con la polvere d’oro.

 

I benefici della mindfulness nelle neuroimmagini

La pratica della mindfulness è un compito che, come sa bene ogni meditatore soprattutto alle prime armi, richiede sforzo cognitivo e attenzione: ma fin da subito può contribuire a ridurre il vagabondare della mente (mind-wandering) e i rimuginii mentali rivolti al passato o al futuro, consentendo ai praticanti di rimanere maggiormente aderenti all’esperienza del momento presente.

Infatti, quando la mente divaga sembrano attivarsi le strutture cerebrali responsabili del ricordo degli eventi passati e dell’immaginazione di quelli futuri (corteccia cingolata posteriore, corteccia prefrontale mediale, giro paraippocampale e le cortecce posteriori/laterali temporali e parietali), contribuendo a formare il cosiddetto sistema Mental Time Travel, che permette agli esseri umani di viaggiare mentalmente nel tempo. Pare che tale sistema neuropsicologico possa essere attivato in modo automatico e inconsapevole dalle persone, contribuendo alla disposizione della mente a perdersi nel flusso temporale dei pensieri e degli scenari che spesso alimentano sofferenza psicologica e sintomi ansioso-depressivi. In effetti studi neuropsicologici e in particolare di neuroimmagini hanno documentato una correlazione tra la riduzione del mind wandering e la ruminazione grazie alla pratica meditativa e riduzione dei sintomi ansioso depressivi.

Dal punto di vista delle neuroimmagini, poi, è stata osservata una correlazione tra meditazione mindfulness e aumento della densità e volume della sostanza grigia a livello della corteccia pre frontale dorsale, della corteccia temporale, dell’ippocampo, della corteccia cingolata e dell’insula. I cambiamenti hanno riguardato anche strutture sottocorticali come il putamen e il cervelletto. Inoltre, l’effetto della pratica meditativa sembra produrre minore perdita di sostanza grigia cerebrale con l’avanzare dell’età.

La regolazione delle emozioni

Entriamo più nello specifico. Con la mindfulness si impara a stabilire un distacco rispetto alle proprie reazioni emotive senza fondersi o farsi sopraffare da esse. Ne consegue minore reattività emotiva e maggiori capacità di “fare fronte” (coping) rispetto alle emozioni disturbanti. È possibile pertanto che la meditazione migliori la capacità di sganciarsi dai meccanismi che portano ad associare stati d’animo negativi a determinate esperienze, sostituendoli con altri stati d’animo più positivi e riducendo così rimuginii mentali e reattività emotiva.

Recenti studi di neuroimmagini hanno verificato che meditatori esperti presentano una riduzione dell’attivazione di alcune aree cerebrali (in particolare, delle aree pre frontali) durante l’esposizione di immagini con un certo contenuto emotivo, e cambiamenti strutturali in alcune regioni cerebrali (come la corteccia pre frontale ventro mediale e l’ippocampo), cruciali nell’inibizione di risposte comportamentali condizionate dalla paura.

In definitiva, gli studi di neuroimmagini hanno confermato che, mentre un soggetto non esperto di meditazione, metterebbe in atto meccanismi di controllo top-down (quindi dall’alto verso il basso) sull’esperienza sensoriale, durante la regolazione delle emozioni, un soggetto esperto di meditazione potrebbe non aver bisogno di una regolazione e di un controllo attivo per gestire le risposte emotive, avendo maggiormente automatizzato una risposta di tipo bottom up (quindi dal basso verso l’alto) di minore reattività e di maggiore accettazione dell’esperienza emotiva positiva o negativa, legata al qui e ora.

Questi risultati sono la base teorica dell’impiego di queste tecniche meditative negli approcci di psicoterapia cognitivo comportamentale di “terza generazione” basati sulla mindfulness, come la DBT, ideata e sviluppata da Marsha Linehan, che si è mostrata efficace per problemi di disregolazione emotiva e difficoltà nel controllo degli impulsi, in particolare per il Disturbo Borderline di Personalità, promuovendo una minore reattività emotiva e nuovi schemi comportamentali e azioni più flessibili ed efficaci.

La consapevolezza del corpo

La pratica meditativa segnala l’importanza della consapevolezza diretta del corpo, senza intermediari. Si tratta di prendere un contatto diretto con le sensazioni del proprio corpo, dal momento che l’attenzione non giudicante applicata alle sensazioni corporee ha un importante potere trasformante, cosicché una maggiore consapevolezza delle proprie emozioni aiuta a regolare meglio tensioni e malesseri, che solitamente si realizzano con sintomi corporei.

Gli studi di neuroimmagini hanno documentato cambiamenti strutturali consistenti a livello di alcune regioni cerebrali (in particolare, insula, della corteccia somato sensoriale e a livello della giunzione temporo parietale) che giocano un ruolo cruciale nella percezione degli stati interni del corpo e delle sensazioni provenienti dal mondo esterno.

La rappresentazione del sé

Studi neuropsicologici hanno attestato come la prativa meditativa costante aiuti a ridurre i tratti caratteriali di nevroticismo (scarsa resistenza a stress di tipo emotivo, tendenza all’ansietà e irritabilità) e a migliorare i livelli di coscienziosità (affidabilità e responsabilità nel comportamento di un individuo, nonché la sua autodisciplina e la sua perseveranza). Inoltre, individui esperti di meditazione sembrano essere in grado di impegnarsi in un’analisi della realtà sensoriale più distaccata ed oggettiva, riuscendo a lasciar andare una elaborazione degli stimoli maggiormente condizionata da stati d’animo soggettivi.

In definitiva, grazie alla mindfulness, il paziente sviluppa un maggiore distacco dai propri contenuti di pensiero e abbraccia una visione di sé più dinamica e aderente alla realtà.

Mindfulness e compassione

La mindfulness presenta numerosi ulteriori benefici. In primo luogo, aiuta ad affrontare meglio il dolore inevitabile o il senso di fallimento che si sperimenta nella vita, che quindi non viene amplificato e perpetuato attraverso una dura autocritica, praticando una gentilezza amorevole verso se stessi. In secondo luogo, riduce l’egocentrismo alla base della sensazione separativa di isolamento dal resto dell’umanità, aumentando invece la sensazione di interconnessione. Inoltre, tenere presente che la sofferenza e il senso di fallimento accadono a tutte le persone, aiuta a contestualizzare la propria esperienza in una prospettiva più ampia e sviluppa la capacità di porre attenzione in modo consapevole ai propri pensieri ed emozioni, senza identificarsi eccessivamente con essi.   

Questi risultati hanno condotto, tra l’altro, all’elaborazione della Compassion Focused Therapy (CFT), una terapia strutturata su interventi cognitivo-comportamentali, sull’importanza della relazione terapeutica e sull’uso della mindfulness in ambito clinico.

Fonti: La neuroscienza della mindfulness, di Fabio D’Antoni, Cristiano Crescentini, Alberto Chiesa in Il Cervello che cambia. Neuro-imaging: il contributo alle neuroscienze, a cura di Marco Pagani e Sara Carletto, Mimesis

 

Disturbo borderline: informazioni utili per i familiari

Inghiottiti dal vortice della sofferenza, i familiari di persone con disturbo borderline si trovano spesso ad affrontare da soli le situazioni più critiche.

Il disturbo borderline di personalità (DBP) è un disturbo caratterizzato da un’instabilità pervasiva nei rapporti interpersonali, un’instabilità nell’immagine di sé e una marcata impulsività. Chi ne è soffre mostra delle reazioni emotive molto intense che oscillano drammaticamente anche per motivi apparentemente poco importanti. Questi cambiamenti d’umore sono dovuti a una difficoltà biologica a regolare le proprie emozioni.

Vivere con una persona con DBP vuol dire vivere sulle montagne russe insieme a loro. I familiari di persone con disturbo borderline si trovano il più delle volte soli nelle situazioni più critiche.

Cosa può fare un familiare? 

Esistono oggi dei programmi per familiari di persone con disturbo borderline finalizzati a fornire informazioni e a sostenere chi ne ha bisogno. Uno di questi è la Family connection, una rete di familiari volontari che ha lo scopo di diffondere un protocollo di psicoeducazione per parenti e amici di persone con DBP. Da qualche anno ci sono gruppi di Family connections anche in Italia (http://borderline-italia.it).

Può inoltre rivolgersi a degli esperiti di questo disturbo specializzati in un trattamento psicoterapico che funzioni, ossia uno di quei trattamenti la cui efficacia è stata dimostrata scientificamente attraverso studi sperimentali randomizzati e controllati (Randomized Control Trials, RCTs). Nella realtà anglosassone gli approcci empiricamente validati sono indicati dalle Linee guida NICE (National Institute for Health and Care Excellence) un istituto che indica orientamenti e consigli basati sulla ricerca per coloro che forniscono e commissionano servizi sanitari, di salute pubblica e di assistenza sociale. In Italia c’è meno informazione.

I trattamenti più efficaci

Attualmente i trattamenti che risultano efficaci per la cura di questo disturbo sono quattro: il Mentalization Based Treatment (MBT) di Anthony Bateman e Peter Fonagy, la Transference Focused Psychotherapy (TFP) elaborata dal gruppo di ricerca e di clinica coordinato da Otto Kernberg, la Schema Focused Therapy (SFT) di Jeffrey Young e la Dialectical Behavior Therapy (DBT) di Marsha Linehan. Quest’ultimo è il trattamento scientifico per il DBP più diffuso nel mondo, probabilmente più generalizzabile e più studiato, con oltre 20 studi di ricerca condotti rispettano la “regola” della ricerca degli studi randomizzati controllati. Questi trattamenti incominciano ad essere diffusi anche in Italia.

Ci sono infine delle Linee guida per familiari, pubblicate dalla The New England Personality Disorder Association e usate all’interno del Programma di Gruppo Multifamiliare del Prof. John G. Gunderson, che sono tradotte in italiano e facilmente consultabili attraverso il sito americano di Family Connections. (http://www.borderlinepersonalitydisorder.com/wp-content/uploads/2016/01/GuidelinessItalian.pdf?x33828)

 

DBT, la terapia nata dalla sofferenza

Ricordando i giorni trascorsi nell’area di isolamento di un istituto psichiatrico americano, Marsha Linehan rivela: «Mi sentivo completamente vuota, come l’uomo di latta, e non capivo come mi stesse succedendo». All’epoca la Linehan non era ancora una famosa docente e terapeuta americana, né tantomeno una studiosa di fama internazionale. Era solo Marsha, un’adolescente affetta da disturbo borderline, alla quale era stata erroneamente diagnosticata una schizofrenia.

Da paziente a terapeuta. Nessuno meglio di chi ha provato l’inquietudine, la solitudine, la paura che accompagna il disturbo borderline, avrebbe potuto ideare una strategia per uscirne. Dopo la laurea Linehan passò anni a lavorare con pazienti che avevano tentato di porre fine al proprio dolore togliendosi la vita. Fu a quel punto che capì: la sofferenza è la chiave, per cambiare davvero bisogna accettarla.

Nasce la DBT. Molti anni dopo questa intuizione, l’ex paziente Marsha Linehan mise a punto un nuovo approccio terapeutico: la Dialectical Behavior Therapy. La DBT è un trattamento cognitivo-comportamentale pensato per la cura di persone con diagnosi di Disturbo Borderline e comportamenti cronicamente suicidari. Il rischio che questi pazienti si tolgano la vita è infatti molto alto, dieci volte superiore alla media della popolazione. La DBT si compone di tre elementi: un gruppo di skills training, finalizzato all’acquisizione di competenze per la regolazione di comportamenti disregolati; una terapia individuale; un servizio di coaching telefonico.

Lo skills training Letteralmente è l’“allenamento delle abilità”. Un po’ come succede in palestra, i pazienti si allenano a sviluppare strategie nuove per risolvere problemi vecchi. L’attività si svolge in piccoli gruppi, da un minimo di 3 a un massimo di 8 persone. Dura circa 6 mesi, con incontri settimanali da un’ora e mezza.

L’obiettivo principale è imparare a regolare le emozioni. Se il dolore per un rifiuto e per una parola fuori posto diventa sopportabile, la persona non avrà più bisogno di ricorrere ad alcol, droga o a pratiche di autolesionismo. Il primo step prevede l’insegnamento dell’abilità di mindfulness (consapevolezza).

Attraverso la meditazione il paziente impara a porre attenzione al presente, a controllare i pensieri e a “schivare” le critiche che rivolge a se stesso e agli altri. Inoltre sviluppa la capacità di accettare la realtà così com’è e di fare scelte sagge. In un secondo momento il partecipante allo skills training apprende a perseguire i propri desideri e obiettivi in maniera funzionale, vale a dire facendo in modo che questo non comporti la distruzione delle relazioni interpersonali.

Il terzo gruppo di abilità riguarda la regolazione delle emozioni: si allenano le capacità di osservare e di dare un nome ai propri stati d’animo. Si lavora sulla riduzione della vulnerabilità emotiva, sulla gestione delle emozioni negative e sul potenziamento delle emozioni positive.

Questo non vuol dire, però, che dolore e sofferenza non torneranno. Per questa ragione, le ultime abilità riguardano la tolleranza. Combattere e rinnegare la sofferenza spesso la rende solo più acuta. Tollerarla invece è parte integrante del tentativo di accettare se stessi o la situazione fonte di dolore. Senza accettazione è impossibile passare a strategie di cambiamento e di soluzione dei problemi.

La terapia individuale. La DBT prevede che al percorso in gruppo si affianchi quello individuale. Il rapporto che il paziente instaura con il terapeuta mira a tenere alta la motivazione e ad applicare le competenze acquisite alle sfide della vita quotidiana.

Il coaching telefonico. E se lo stress acuto arriva di domenica pomeriggio o alle otto di sera? Il trattamento prevede la possibilità di contattare il terapeuta per fronteggiare momenti particolarmente critici che si presentano nella vita quotidiana (ad esempio gli impulsi suicidari).

«Sei una di noi?» È questo che una paziente di Marsha Linehan voleva sapere dalla sua terapeuta. «Se tu lo fossi daresti a noi una grande speranza». Fu quella la prima volta in cui la madre della DBT raccontò pubblicamente di soffrire anche lei di disturbo borderline.

«Onestamente, nel periodo passato all’istituto psichiatrico non realizzavo che stavo combattendo contro me stessa. Ma è probabilmente vero che ho sviluppato una terapia che fornisce ciò di cui io ho avuto bisogno per molti anni e che non ho mai ricevuto».