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Posts tagged as “mindfulness”

Arriviamo puntuali ad un appuntamento che non ci eravamo dati

“Arriviamo puntuali ad un appuntamento che non ci eravamo dati”. Una frase che è come un fulmine: non potremmo descrivere meglio la sensazione che si prova quando il dolore entra nella tua vita. In particolare quando questo dolore riguarda i tuoi figli, tuo figlia o tua figlia che, improvvisamente, comincia a stare male. “A dare i numeri” come si dice di solito.

Adolescenza?

Adolescenza? Molto spesso è questa l’età d’esordio dei disturbi borderline di personalità e comunque questa è spesso l’età in cui se c’è stato qualcosa che ha fatto attrito nella crescita non rimane più in sottofondo ma esplode con tutta la sua violenza, la violenza dell’impulsività. Nel disturbo borderline di personalità questa violenza ha anche una base fisiologica: un’amigdala iper-attivata e una corteccia pre-frontale, sede dei pensieri riflessivi, invece non accessibile. È, per usare una metafora di Valerie Porr, come guidare una macchina con l’acceleratore al massimo (l’amigdala) e senza freni (la corteccia non accessibile). Certamente prima o poi ti fai male. E prima o poi fai male a qualcuno, più facile che fai male a qualcuno che ami che ad un estraneo. Perché? Perché molto spesso le persone con disturbo borderline hanno una competenza apparente che li rende adeguati nelle situazioni pubbliche e dis-regolati in quelle private.

Cosa succede quando un figlio sta male?

Quello che succede di solito quando un figlio sta male emotivamente è che inizia la caccia al colpevole e spesso inizia anche il circolo dei sensi di colpa. Sensi di colpa che fanno oscillare tra comportamenti iper-compensativi ed esplosioni distruttive dalle quali non si riesce ad uscire. E una delle ragioni per cui non si riesce ad uscire è che tutta l’attenzione è su chi sta male dimenticando che quando un figlio sta male tutta la famiglia si ammala e nel suo ammalarsi può finire per contribuire al mantenimento o peggioramento del disagio emotivo. Anche questo un circolo vizioso che rischia di aumentare il senso di impotenza e frustrazione. Cosa possiamo fare? Questa è la domanda che si fanno i genitori, una domanda a cui spesso dimentichiamo non solo di dare risposta ma anche di dare ascolto perché, il malato, è il figlio, la figlia, o come si dice nell’approccio sistemico-familiare, il “paziente designato”

Imparare un altro linguaggio

Valerie Porr cerca di rispondere a queste domande e lo fa con un linguaggio che arriva esattamente dove deve arrivare. Un linguaggio semplice e pratico insieme. Immagina di andare in un paese di cui non conosci la lingua. Devi comunicare e per farlo è necessario imparare i rudimenti di questa lingua nuova e sconosciuta. Non puoi pretendere che ti capiscano, né imporre la tua lingua come standard minimo di comunicazione. Per uscire dall’isolamento è necessario imparare quel linguaggio nuovo e diverso.

Le persone con disturbo borderline parlano una lingua che i genitori non capiscono e che spesso ritengono incomprensibile, inadeguata e sbagliata. Fino a che non imparano a trovare un linguaggio comune si scontrano con l’ isolamento: i figli sono isolati nel loro dolore, i genitori nel proprio e, invece che avvicinarsi si scontrano cercando di trovare una connessione perduta. Come ristabilire la connessione? Valerie Porr indica una strada fatta di alcuni passi che fanno parte del percorso della DBT (Terapia Dialettico-Comportamentale). Questi passi, senza entrare nello specifico della DBT, sono utili sempre, anche quando il problema non è un disturbo come quello borderline di personalità. Sono passi che aiutano quando il dolore  ci mette in una condizione di isolamento. Perché più la difficoltà è forte e più possiamo sentirci isolati, anche di fronte a persone che, attorno a noi, desiderano aiutarci e non sanno come fare per raggiungerci.

Siamo in territorio straniero

Quando abbiamo un problema forse la prima cosa è accettare che stiamo entrando in un territorio straniero. Un territorio dove le nostre competenze abituali non sono più così accessibili perché la rabbia, la paura e il dolore aumentano le risposte impulsive e diminuiscono la capacità di riflettere (e rimuginare non è riflettere). In una parola il dolore fa da interruttore d’accensione delle difese e le difese, molto spesso fanno più danno che altro, diminuendo la capacità di entrare in contatto con chi ci sta di fronte: ecco perché ci sentiamo isolati.

Pensare di essere in un territorio straniero ha un enorme vantaggio: ci mette in una posizione antropologica e ci toglie dalla posizione clinica. Siamo alla scoperta di un’altra “cultura” e non di una “malattia”. Spesso la diversità è stata patologizzata perché sovverte la cultura di riferimento, lo stile familiare, le aspettative sociali e non ci fa fare invece lo sforzo di domandarsi: come posso capire le norme della cultura straniera che ho incontrato? E, a questo proposito, il linguaggio di chi cura può essere una difficoltà in più. Imponiamo il nostro gergo psicologico, adatto nella tribù degli psicologi ma non adatto a tutte le tribù. Forse dovremmo darci la regola del 10% e non superare questa soglia di parole tecniche, verificando che siano state spiegate e comprese.

Riportare il dialogo per riportare la connessione

Può succedere di stare male e di non capire il proprio stato emotivo – per chi soffre di un disturbo borderline di personalità questa è la condizione quotidiana – questo rende la comunicazione frustrante e frammentata. Se ti senti in colpa per quello che sta succedendo ti metti in una doppia condizione di frustrazione e sono due le persone che devi salvare: te stesso e l’altra persona. Te stesso perché devi trovare il modo di rassicurarti che non è colpa tua ( e spesso il modo è dire che è colpa dell’altro) e l’altro perché sta male: è un compito soverchiante. Per usare sempre una metafora usata da Valerie Porr è come sentire una persona che ami urlare di dolore in una stanza di cui non hai la chiave. Ad un certo punto questo ti fa impazzire. Dobbiamo trovare la chiave e la chiave è la validazione.

Ecco che arriva la parola tecnica: validazione

Cos’è la validazione? È un termine tecnico – come vedi ogni tanto questi termini tecnici dobbiamo usarli –  che significa riconoscere all’altro il diritto di provare quello che prova. Sembra facile ma non lo è perché, appunto, abbiamo l’interferenza del senso di colpa, della rabbia, del dolore, della paura. Ma, soprattutto, abbiamo una terribile confusione di base tra le emozioni e i comportamenti collegati alle emozioni.

Tutte le emozioni che ci mettono in difesa attivano l’amigdala e fin qui niente da dire se non fosse che, se l’attivazione è intensa, diventano anche impulsi all’azione. Gli impulsi all’azione sono duri, difficili da gestire se non siamo consapevoli. Se siamo consapevoli possiamo distinguere l’emozione che proviamo dal comportamento che ci spingerebbe ad agire. Pratichiamo pausa – come diciamo nella mindfulness – diventiamo consapevoli della nostra emozione, la validiamo, ossia riconosciamo il nostro diritto a provarla e poi scegliamo come agire. Questo processo non deve farlo solo chi sta male ma sia chi sta male che la persona che vuole prestare soccorso. E già questo può non essere facilmente comprensibile per un genitore perché il genitore vuole rispondere subito, immediatamente, al dolore del figlio. Anzi a volte non vorrebbe che nemmeno conoscesse il dolore e il figlio potrebbe non essere in grado di farlo. Per l’intensità del suo dolore, per inesperienza, perché ha una soglia alta di frustrabilità ossia è molto sensibile e anche piccoli dolori hanno grande risonanza. Insomma chi ha più saggezza la usi: la validazione è la chiave che apre la porta, che rompe l’isolamento e la disconnessione, che separa il diritto a provare un’emozione e sospende il giudizio sul comportamento rispetto al quale probabilmente avremmo molto da ridire

Gli ingredienti della validazione

La validazione è un ascolto generoso che è fatto da tre ingredienti principali: essere simpatetici, compassionevoli ed empatici. Essere simpatetici significa essere sensibili alle sensazioni altrui. Spesso le persone altamente sensibili sono sensibili solo alle proprie sensazioni e quindi diventa difficile per loro usare proprio questa loro grande qualità: la sensibilità. Le persone simpatetiche invece sanno riconoscere velocemente le sensazioni degli altri. Essere simpatetici richiede anche una qualità: non aggiungere la propria sensibilità alla sensazione dell’altro. Io sento il tuo disagio ma rimane il tuo disagio e non “io sento il tuo disagio e ci metto sopra una spolverata del mio disagio per il tuo disagio” come facciamo più frequentemente quando è una persona che amiamo a soffrire.

La compassione è sia uno stato mentale – che possiamo coltivare attraverso la pratica di mindfulness – che un’emozione che sorge quando ci permettiamo di sentire il dolore, nostro e altrui. Ecco perché le difese non aiutano: servono per ridurre la percezione del dolore e, conseguentemente, riducono anche la possibilità di provare compassione e self-compassion. Sviluppare la compassione non è facile e nemmeno automatico: richiede impegno e pratica perché la prima risposta, istintiva, è quella di difenderci dal dolore ma questa difesa aumenta il senso di isolamento e dis-connessione e, nel lungo periodo non offre vantaggi. Il problema è che nell’immediato la difesa può sembrare molto efficace. Mi dà fastidio qualcosa ed evitandola il fastidio diminuisce fino a scomparire. Peccato che rimanga come un fuoco che cova sotto la cenere. La compassione può suscitare rabbia. Rabbia perché vediamo il pericolo che corre la persona che amiamo ma quella rabbia è salutare perché alimenta il desiderio di proteggere. È quella che ci spinge ad essere attivi nella ricerca di soluzioni, è quella che ci fa rimanere svegli per curare qualcuno o che ci rende vigili nelle situazioni difficili ed è diversa dalla rabbia difensiva: è premura e non preoccupazione.

L’empatia è la capacità di mettersi nei panni dell’altro ed è diversa dalla compassione. Nell’empatia “sappiamo cosa prova l’altro”. Nella compassione proviamo il desiderio di alleviare la sofferenza dell’altro. Abbiamo bisogno di essere empatici per riconoscere la sofferenza dell’altro oltre che simpatetici. L’empatia riconosce lo stato mentale, l’essere simpatetico le sensazioni fisiche ed emotive. La validazione riconosce, tutto insieme, il diritto dell’altro di provare l’emozione che prova. Un’emozione che può essere nascosta sotto un comportamento opposto: c’è dolore ma mostra rabbia. C’è bisogno di connessione ma mostra desiderio di isolarsi. La validazione distingue tra il diritto di provare quello che si prova e il comportamento, senza entrare nella riprovazione del comportamento. Bene allora tutto chiaro, no?

Non è facile essere contro-intuitivi

Non è facile essere contro-intuitivi e la validazione ci chiede di farlo. Di andare oltre al comportamento manifesto che può essere molto discutibile e di vedere l’emozione sta sotto il dolore. Di imparare a riconoscere gli interruttori di quella reattività e, soprattutto ci chiede di non essere reattivi. Questa è la prima grande difficoltà della validazione. Ci chiede di essere così consapevoli di noi e dei nostri stati mentali da non diventare reattivi nemmeno di fronte alle provocazioni più intense. È per questo che la mindfulness è così importante: coltiva, attraverso la consapevolezza e la pratica, la capacità di rispondere e non reagire. Coltiva la capacità di prendersi cura del proprio dolore

La validazione attiva anche un paradosso: va male ma non voglio cambiarti e non ti amo perché tu cambi. Ti amo e ti accetto così come sei, senza speranza e senza disperazione. Quante volte possiamo dire di amare senza metterci il desiderio che il risultato del nostro amore sia il cambiamento? Quante volte interpretiamo il fatto che l’altro non cambi come un segno di non amore? Quante volte il fatto che nostro figlio, nostra figlia abbia dei problemi è vissuto come un fallimento della nostra genitorialità?

Non è facile essere contro-intuitivi. Significa vedere risorse dove ci sono problemi, possibilità dove ci sono limiti e non cercare la via d’uscita da quell’appuntamento che non sapevamo di esserci dati e al quale arriviamo puntuali e impreparati.

L’articolo è uscito in originale sul sito Bioenergetica e Mindfulness di Nicoletta Cinotti.

Ph: Photo by Nick Fewings on Unsplash 

Mindful-family: come la mindfulness può aiutare non solo le persone con un disturbo psicologico ma anche le loro famiglie

I familiari di persone che soffrono di un disturbo mentale o di una malattia fisica cronica possono raggiungere livelli di stress molto elevati che interferiscono con un buon adattamento nella vita quotidiana: alcuni approcci psicologici sono in grado di affrontare questi fattori sistemici e possono dunque essere molto utili.

Gli interventi basati sulla mindfulness (MBI) si sono rivelati efficaci nell’aiutare le persone che vivono in situazioni croniche di disagio; tuttavia, la maggior parte di questi interventi è stata fino a oggi diretta principalmente ai soli pazienti affetti dal disturbo.  C’è ormai una vasta ricerca che mostra come la mindfulness individuale migliori il funzionamento relazionale, la mindfulness con i genitori (mindful-parenting) migliori lo stato di salute dei figli e la mindfulness nelle relazioni influenzi positivamente la salute e il benessere di entrambi i partner. Possiamo dunque ritenere che gli MBI diretti verso il sistema familiare e non solo verso il singolo individuo, meritino un posto di primo piano nell’assistenza sanitaria. Vediamo insieme perché.

Come spiegano Susan Maria Bögels (Università di Amsterdam) and Lisa-Marie Emerson  (Griffith University, Australia) in una articolo apparso su Sciencedirect, la natura delle malattie somatiche, mentali e croniche è di per sé sistemica. Se ad esempio una donna soffre di depressione, ciò può essere causato da fattori sistemici come la sua educazione e il rapporto attuale con la sua famiglia di origine, la relazione con il suo (ex) partner, con i figli e così via. Anche il sistema sarà influenzato a sua volta e influenzerà il corso della depressione della donna: l’impatto della malattia può estendersi ai suoi rapporti con i suoi figli, il suo (ex) partner e i suoi genitori. Lo stesso processo vale per le malattie fisiche: la malattia di un bambino può essere stata causata da elementi dell’ambiente familiare, quali il cibo e lo stile di vita.

Perciò, dato che attualmente la maggior parte degli interventi basati sulla mindfulness è diretta nei confronti di colui che ha il disturbo, gli MBI indirizzati verso il sistema (ad es. figli, fratelli, genitori) e non solo verso l’individuo, possono venire incontro a un bisogno insoddisfatto. Hanno il potenziale per alleviare la sofferenza di tutta la famiglia, aumentando l’impatto e l’efficacia delle cure nella persona che soffre di una determinata malattia. La mindfulness infatti non solo influenza il modo in cui ci relazioniamo con noi stessi, ma anche il modo in cui ci relazioniamo agli altri: “mindfulness relazionale”, appunto. Praticare un’attenzione centrata sul momento presente e non giudicante, verso se stessi e gli altri, può portare profondi cambiamenti nelle relazioni. Pertanto gli MBI possono essere efficaci per difficoltà relazionali quali quelle coniugali o genitoriali.

La mindfulness individuale si occupa della soddisfazione nella relazione e della capacità di far fronte allo stress che la relazione comporta: nelle relazioni sentimentali, gli studi trasversali e di intervento concordano sul fatto che un alto livello di mindfulness individuale sia associato a una maggiore soddisfazione nella relazione; la mindfulness potrebbe quindi avere un ruolo chiave nel modo in cui gli individui reagiscono al conflitto all’interno di una relazione, compreso un maggiore controllo sulle manifestazioni più impulsive della rabbia. Ad esempio nel momento del conflitto, un livello maggiore di mindfulness è associato a un più veloce ristabilimento del cortisolo di fronte ad un comportamento negativo del partner.

È probabile che queste evidenze non riguardino solo le relazioni sentimentali ma anche la mindfulness genitoriale. C’è un ampio gruppo di studi recenti e trasversali che pone in evidenza come il mindful-parenting sia associato a un più basso tasso di psicopatologie nei figli – depressione, ansia, rischio di assumere sostanze stupefacenti e o comportamenti sessuali a rischio. È associato anche ad un miglior controllo glicemico negli adolescenti con diabete.

In considerazione di tutti questi dati e in un’ottica di cura e prevenzione possiamo dire che la mindfulness genitoriale o comunque per i familiari delle persone che soffrono di un disagio psichico o fisico e per i problemi relazionali all’interno delle famiglie merita davvero un’attenzione particolare nel panorama scientifico.