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Grande successo a Genova per il libro di Valerie Porr

Si è svolta il 29 gennaio all’hotel AC Marriott di Genova la presentazione dell’edizione italiana del libro di Valerie Porr Superare il disturbo borderline di personalità, una guida per familiari e clinici Edizioni Erickson. Il volume è stato presentato dalle due curatrici dell’edizione italiana, la dottoressa Elisabetta Pizzi presidente di Altrimenti, psicoterapeuta presso il Terzocentro di psicoterapia cognitiva di Roma, e la dottoressa Francesca Gallini neonatologa presso il Policlinico Gemelli di Roma e docente all’Università Cattolica di Roma Facoltà di Medicina. Chairman il dottor Marco Vaggi, psichiatra, fino a un anno fa direttore del Dipartimento della Salute Mentale e Dipendenze di Genova.

La dottoressa Pizzi e la dottoressa Gallini hanno raccontato il loro percorso di scoperta di questo volume e delle ragioni professionali e personali che le hanno convinte della necessità di una sua edizione italiana. Il volume presenta i risultati delle ricerche più recenti sul Disturbo Borderline di Personalità e l’efficacia dei trattamenti psicosociali, fornisce consigli e suggerimenti molto concreti su cosa fare e cosa non fare e insegna tecniche di coping e strategie per affinare abilità relazionali legate all’ espressione delle emozioni e alla comprensione della comunicazione non verbale. Queste tecniche, che derivano da due metodi evidence-based, la terapia dialettico comportamentale e il trattamento basato sulla mentalizzazione, consentono di ottenere risultati tangibili, mostrando che le difficoltà possono essere superate e trasmettendo fiducia alle persone con Disturbo Borderline di Personalità e alle loro famiglie.

Il dottor Vaggi ha ricordato tra l’altro il percorso di collaborazione tra tutte le associazioni di utenti, di familiari e i Servizi di Salute mentale che hanno portato alla nascita del Patto per la Salute La Città che cura il 7 maggio 2018. Patto firmato dalle Istituzioni e principali soggetti economici, culturali e sociali della città di Genova.

L’incontro è stato molto partecipato e ricco di testimonianze. Erano presenti operatori del servizio pubblico della Salute Mentale, professionisti privati e molti familiari oltre a rappresentanti delle associazioni familiari di Genova, Alfapp Liguria, Ama.li, Family Connections, Orizzonti, Progetto Itaca Genova. La dottoressa Patrizia Capurro, educatrice professionale presso il Centro di Salute Mentale distretto 13, ha arricchito l’incontro con la presentazione di alcune attività svolte in collaborazione tra associazioni di familiari e Servizi di Salute Mentale all’interno delle iniziative promosse dal “Patto per la salute “

Il dottor Vaggi ha concluso sottolineando i quattro argomenti sui quali si erano incentrate le riflessioni durante l’incontro: la conoscenza del disturbo, la necessità di una comunicazione empatica tra operatori, familiari e pazienti, la fiducia da riconquistare tra tutti i soggetti coinvolti, e la necessità di tecniche efficaci da parte dei genitori. Ha sottolineato come la collaborazione in diversi progetti tra tutte le associazioni presenti e i Servizi fosse un segnale importante e di speranza. Al termine si è svolta l’inaugurazione del piccolo laboratorio di ceramica, in via Romana della Castagna 10, progetto in collaborazione tra Altrimenti e l’Istituto Nazionale di Bioarchitettura.

L’associazione Altrimenti ringrazia AC Hotel Marriott Genova per il contributo allo svolgimento dell’evento.

Arriviamo puntuali ad un appuntamento che non ci eravamo dati

“Arriviamo puntuali ad un appuntamento che non ci eravamo dati”. Una frase che è come un fulmine: non potremmo descrivere meglio la sensazione che si prova quando il dolore entra nella tua vita. In particolare quando questo dolore riguarda i tuoi figli, tuo figlia o tua figlia che, improvvisamente, comincia a stare male. “A dare i numeri” come si dice di solito.

Adolescenza?

Adolescenza? Molto spesso è questa l’età d’esordio dei disturbi borderline di personalità e comunque questa è spesso l’età in cui se c’è stato qualcosa che ha fatto attrito nella crescita non rimane più in sottofondo ma esplode con tutta la sua violenza, la violenza dell’impulsività. Nel disturbo borderline di personalità questa violenza ha anche una base fisiologica: un’amigdala iper-attivata e una corteccia pre-frontale, sede dei pensieri riflessivi, invece non accessibile. È, per usare una metafora di Valerie Porr, come guidare una macchina con l’acceleratore al massimo (l’amigdala) e senza freni (la corteccia non accessibile). Certamente prima o poi ti fai male. E prima o poi fai male a qualcuno, più facile che fai male a qualcuno che ami che ad un estraneo. Perché? Perché molto spesso le persone con disturbo borderline hanno una competenza apparente che li rende adeguati nelle situazioni pubbliche e dis-regolati in quelle private.

Cosa succede quando un figlio sta male?

Quello che succede di solito quando un figlio sta male emotivamente è che inizia la caccia al colpevole e spesso inizia anche il circolo dei sensi di colpa. Sensi di colpa che fanno oscillare tra comportamenti iper-compensativi ed esplosioni distruttive dalle quali non si riesce ad uscire. E una delle ragioni per cui non si riesce ad uscire è che tutta l’attenzione è su chi sta male dimenticando che quando un figlio sta male tutta la famiglia si ammala e nel suo ammalarsi può finire per contribuire al mantenimento o peggioramento del disagio emotivo. Anche questo un circolo vizioso che rischia di aumentare il senso di impotenza e frustrazione. Cosa possiamo fare? Questa è la domanda che si fanno i genitori, una domanda a cui spesso dimentichiamo non solo di dare risposta ma anche di dare ascolto perché, il malato, è il figlio, la figlia, o come si dice nell’approccio sistemico-familiare, il “paziente designato”

Imparare un altro linguaggio

Valerie Porr cerca di rispondere a queste domande e lo fa con un linguaggio che arriva esattamente dove deve arrivare. Un linguaggio semplice e pratico insieme. Immagina di andare in un paese di cui non conosci la lingua. Devi comunicare e per farlo è necessario imparare i rudimenti di questa lingua nuova e sconosciuta. Non puoi pretendere che ti capiscano, né imporre la tua lingua come standard minimo di comunicazione. Per uscire dall’isolamento è necessario imparare quel linguaggio nuovo e diverso.

Le persone con disturbo borderline parlano una lingua che i genitori non capiscono e che spesso ritengono incomprensibile, inadeguata e sbagliata. Fino a che non imparano a trovare un linguaggio comune si scontrano con l’ isolamento: i figli sono isolati nel loro dolore, i genitori nel proprio e, invece che avvicinarsi si scontrano cercando di trovare una connessione perduta. Come ristabilire la connessione? Valerie Porr indica una strada fatta di alcuni passi che fanno parte del percorso della DBT (Terapia Dialettico-Comportamentale). Questi passi, senza entrare nello specifico della DBT, sono utili sempre, anche quando il problema non è un disturbo come quello borderline di personalità. Sono passi che aiutano quando il dolore  ci mette in una condizione di isolamento. Perché più la difficoltà è forte e più possiamo sentirci isolati, anche di fronte a persone che, attorno a noi, desiderano aiutarci e non sanno come fare per raggiungerci.

Siamo in territorio straniero

Quando abbiamo un problema forse la prima cosa è accettare che stiamo entrando in un territorio straniero. Un territorio dove le nostre competenze abituali non sono più così accessibili perché la rabbia, la paura e il dolore aumentano le risposte impulsive e diminuiscono la capacità di riflettere (e rimuginare non è riflettere). In una parola il dolore fa da interruttore d’accensione delle difese e le difese, molto spesso fanno più danno che altro, diminuendo la capacità di entrare in contatto con chi ci sta di fronte: ecco perché ci sentiamo isolati.

Pensare di essere in un territorio straniero ha un enorme vantaggio: ci mette in una posizione antropologica e ci toglie dalla posizione clinica. Siamo alla scoperta di un’altra “cultura” e non di una “malattia”. Spesso la diversità è stata patologizzata perché sovverte la cultura di riferimento, lo stile familiare, le aspettative sociali e non ci fa fare invece lo sforzo di domandarsi: come posso capire le norme della cultura straniera che ho incontrato? E, a questo proposito, il linguaggio di chi cura può essere una difficoltà in più. Imponiamo il nostro gergo psicologico, adatto nella tribù degli psicologi ma non adatto a tutte le tribù. Forse dovremmo darci la regola del 10% e non superare questa soglia di parole tecniche, verificando che siano state spiegate e comprese.

Riportare il dialogo per riportare la connessione

Può succedere di stare male e di non capire il proprio stato emotivo – per chi soffre di un disturbo borderline di personalità questa è la condizione quotidiana – questo rende la comunicazione frustrante e frammentata. Se ti senti in colpa per quello che sta succedendo ti metti in una doppia condizione di frustrazione e sono due le persone che devi salvare: te stesso e l’altra persona. Te stesso perché devi trovare il modo di rassicurarti che non è colpa tua ( e spesso il modo è dire che è colpa dell’altro) e l’altro perché sta male: è un compito soverchiante. Per usare sempre una metafora usata da Valerie Porr è come sentire una persona che ami urlare di dolore in una stanza di cui non hai la chiave. Ad un certo punto questo ti fa impazzire. Dobbiamo trovare la chiave e la chiave è la validazione.

Ecco che arriva la parola tecnica: validazione

Cos’è la validazione? È un termine tecnico – come vedi ogni tanto questi termini tecnici dobbiamo usarli –  che significa riconoscere all’altro il diritto di provare quello che prova. Sembra facile ma non lo è perché, appunto, abbiamo l’interferenza del senso di colpa, della rabbia, del dolore, della paura. Ma, soprattutto, abbiamo una terribile confusione di base tra le emozioni e i comportamenti collegati alle emozioni.

Tutte le emozioni che ci mettono in difesa attivano l’amigdala e fin qui niente da dire se non fosse che, se l’attivazione è intensa, diventano anche impulsi all’azione. Gli impulsi all’azione sono duri, difficili da gestire se non siamo consapevoli. Se siamo consapevoli possiamo distinguere l’emozione che proviamo dal comportamento che ci spingerebbe ad agire. Pratichiamo pausa – come diciamo nella mindfulness – diventiamo consapevoli della nostra emozione, la validiamo, ossia riconosciamo il nostro diritto a provarla e poi scegliamo come agire. Questo processo non deve farlo solo chi sta male ma sia chi sta male che la persona che vuole prestare soccorso. E già questo può non essere facilmente comprensibile per un genitore perché il genitore vuole rispondere subito, immediatamente, al dolore del figlio. Anzi a volte non vorrebbe che nemmeno conoscesse il dolore e il figlio potrebbe non essere in grado di farlo. Per l’intensità del suo dolore, per inesperienza, perché ha una soglia alta di frustrabilità ossia è molto sensibile e anche piccoli dolori hanno grande risonanza. Insomma chi ha più saggezza la usi: la validazione è la chiave che apre la porta, che rompe l’isolamento e la disconnessione, che separa il diritto a provare un’emozione e sospende il giudizio sul comportamento rispetto al quale probabilmente avremmo molto da ridire

Gli ingredienti della validazione

La validazione è un ascolto generoso che è fatto da tre ingredienti principali: essere simpatetici, compassionevoli ed empatici. Essere simpatetici significa essere sensibili alle sensazioni altrui. Spesso le persone altamente sensibili sono sensibili solo alle proprie sensazioni e quindi diventa difficile per loro usare proprio questa loro grande qualità: la sensibilità. Le persone simpatetiche invece sanno riconoscere velocemente le sensazioni degli altri. Essere simpatetici richiede anche una qualità: non aggiungere la propria sensibilità alla sensazione dell’altro. Io sento il tuo disagio ma rimane il tuo disagio e non “io sento il tuo disagio e ci metto sopra una spolverata del mio disagio per il tuo disagio” come facciamo più frequentemente quando è una persona che amiamo a soffrire.

La compassione è sia uno stato mentale – che possiamo coltivare attraverso la pratica di mindfulness – che un’emozione che sorge quando ci permettiamo di sentire il dolore, nostro e altrui. Ecco perché le difese non aiutano: servono per ridurre la percezione del dolore e, conseguentemente, riducono anche la possibilità di provare compassione e self-compassion. Sviluppare la compassione non è facile e nemmeno automatico: richiede impegno e pratica perché la prima risposta, istintiva, è quella di difenderci dal dolore ma questa difesa aumenta il senso di isolamento e dis-connessione e, nel lungo periodo non offre vantaggi. Il problema è che nell’immediato la difesa può sembrare molto efficace. Mi dà fastidio qualcosa ed evitandola il fastidio diminuisce fino a scomparire. Peccato che rimanga come un fuoco che cova sotto la cenere. La compassione può suscitare rabbia. Rabbia perché vediamo il pericolo che corre la persona che amiamo ma quella rabbia è salutare perché alimenta il desiderio di proteggere. È quella che ci spinge ad essere attivi nella ricerca di soluzioni, è quella che ci fa rimanere svegli per curare qualcuno o che ci rende vigili nelle situazioni difficili ed è diversa dalla rabbia difensiva: è premura e non preoccupazione.

L’empatia è la capacità di mettersi nei panni dell’altro ed è diversa dalla compassione. Nell’empatia “sappiamo cosa prova l’altro”. Nella compassione proviamo il desiderio di alleviare la sofferenza dell’altro. Abbiamo bisogno di essere empatici per riconoscere la sofferenza dell’altro oltre che simpatetici. L’empatia riconosce lo stato mentale, l’essere simpatetico le sensazioni fisiche ed emotive. La validazione riconosce, tutto insieme, il diritto dell’altro di provare l’emozione che prova. Un’emozione che può essere nascosta sotto un comportamento opposto: c’è dolore ma mostra rabbia. C’è bisogno di connessione ma mostra desiderio di isolarsi. La validazione distingue tra il diritto di provare quello che si prova e il comportamento, senza entrare nella riprovazione del comportamento. Bene allora tutto chiaro, no?

Non è facile essere contro-intuitivi

Non è facile essere contro-intuitivi e la validazione ci chiede di farlo. Di andare oltre al comportamento manifesto che può essere molto discutibile e di vedere l’emozione sta sotto il dolore. Di imparare a riconoscere gli interruttori di quella reattività e, soprattutto ci chiede di non essere reattivi. Questa è la prima grande difficoltà della validazione. Ci chiede di essere così consapevoli di noi e dei nostri stati mentali da non diventare reattivi nemmeno di fronte alle provocazioni più intense. È per questo che la mindfulness è così importante: coltiva, attraverso la consapevolezza e la pratica, la capacità di rispondere e non reagire. Coltiva la capacità di prendersi cura del proprio dolore

La validazione attiva anche un paradosso: va male ma non voglio cambiarti e non ti amo perché tu cambi. Ti amo e ti accetto così come sei, senza speranza e senza disperazione. Quante volte possiamo dire di amare senza metterci il desiderio che il risultato del nostro amore sia il cambiamento? Quante volte interpretiamo il fatto che l’altro non cambi come un segno di non amore? Quante volte il fatto che nostro figlio, nostra figlia abbia dei problemi è vissuto come un fallimento della nostra genitorialità?

Non è facile essere contro-intuitivi. Significa vedere risorse dove ci sono problemi, possibilità dove ci sono limiti e non cercare la via d’uscita da quell’appuntamento che non sapevamo di esserci dati e al quale arriviamo puntuali e impreparati.

L’articolo è uscito in originale sul sito Bioenergetica e Mindfulness di Nicoletta Cinotti.

Ph: Photo by Nick Fewings on Unsplash 

Adolescenti e pandemia: ultimi dati e riflessioni

Da quando è iniziata, ormai due anni fa, la pandemia da Covid 19 abbiamo sentito ripetuti allarmi riguardo alla salute mentale di tutta la popolazione e degli adolescenti in particolare. I commentatori sui mezzi di informazione sono passati dall’incolpare i giovani di comportamenti pericolosi (ricordate le “feste in discoteca” e gli “aperitivi affollati sui Navigli” dell’estate 2020?) al compatirli per i lunghi periodi di isolamento sociale e il disastro della dad.

Ma cosa ci dicono i dati raccolti sul campo dai centri che si occupano di disagio in età giovanile? Da poco sono usciti due studi molto significativi: il primo, incentrato sull’abito milanese, a cura del IRCCS Ospedale San Raffaele Turro e AMU (Ambulatori Milanesi Unificati), entrambi sotto la responsabilità del dott. Raffaele Visintini, e il secondo a opera dell’Unità Organizzativa Complessa Prevenzione e Interventi Precoci (UOC PIP) del DSM ASL Roma 1, che conta fra i suoi utenti ben 110.000 persone fra i 14 e i 25 anni.

In primo luogo i numeri che emergono da entrambi i rapporti sono concordi nel confermare che il ricorso ai servizi dei giovani è aumentato di almeno 50% tra 2019 (cioè in periodo pre-pandemico) e 2020, con un abbassamento dell’età media (oltre il 60% sono under 35) e una prevalenza del genere femminile (circa l’80%).

È pur vero, annotano gli studiosi milanesi, che una maggiore consapevolezza del disagio psicologico e dunque il ricorso ai percorsi di cura potrebbero essere stati favoriti dal lockdown stesso. Il maggior tempo passato in casa di figli e genitori potrebbe aver portato alla luce problemi latenti, così come e la possibilità di accedere alle terapie online durante i lockdown può aver facilitato i giovani (più a loro agio nel mondo della comunicazione online) rispetto alle modalità tradizionali.

In ogni caso, sulla base dei dati raccolti, i terapeuti milanesi hanno voluto capire se, e in che modo, la pandemia abbia impattato sui meccanismi di regolazione emotiva, somministrando ai pazienti un questionario di autovalutazione (il DERS – Difficulties in Emotion Regulation Scale). Ebbene, quello che è emerso dalle risposte è “un generale aumento della disregolazione emotiva, in particolare per ciò che concerne la regolazione delle emozioni ‘forti’ e una concomitante riduzione della capacità di utilizzare strategie flessibili di regolazione emotiva appropriate al contesto e alle richieste situazionali”. Come spiegare questa diminuita capacità di moderazione emotiva? Gli autori del rapporto ipotizzano che la reclusione domestica, la mancanza della regolazione data dagli orari della scuola, dalle attività fuori casa e dalla vita sociale in generale siano all’origine della maggiore difficolta di regolare le proprie emozioni. 

La pandemia ha prodotto il disagio o lo ha svelato?

Gli spunti forniti dai ricercatori dell’ASL Roma 1 portano ulteriori spunti di analisi. Dal loro osservatorio è emerso che è sì indubbio un aumentato ricorso ai servizi da parte di giovani e adolescenti, ma ciò si è verificato a partire non dal primo lockdown (primavera 2020) ma dall’autunno dello stesso anno, con il rientro a scuola dei ragazzi. Genitori e professori si sono cioè trovati di fronte a un fenomeno inatteso e per certi aspetti paradossale: “Gli studenti non avevano alcuna voglia di tornare in classe. Genitori e professori assistevano attoniti al fallimento delle loro aspettative: per mesi avevano tutti sostenuto che l’assenza di relazioni reali fosse un elemento di grande sofferenza e ora le loro tesi si trovavano a essere completamente disattese”. Per spiegare questo fenomeno gli autori dello studio ipotizzano che la pandemia non abbia prodotto ma piuttosto abbia svelato un tema cruciale per i giovani della cosiddetta generazione Z: la paura dell’Altro. “È l’altro in quanto portatore di alterità che mette a disagio e che spinge a rifugiarsi in un mondo reso sicuro dall’essere sempre simile a se stesso”: oggi i ragazzi e gli adolescenti sono cioè portati a cercare il simile, non il diverso da sé, che mette paura. E questa fuga dall’Altro si traduce in un’impossibilità a crescere come soggetti autonomi che non si fanno mettere in crisi dal confronto con il mondo esterno, condannando questi ragazzi a restare in uno stato di “indeterminatezza”. Una condizione tale per la quale spesso questi giovani e adolescenti, pur presentando un evidente disagio, non riescono a concretizzarlo in un sintomo preciso, catalogabile secondo le categorie tradizionali, ma “errano” fra vari sintomi, rendendo difficile una diagnosi e una cura. I terapeuti del gruppo di studio romano hanno coniato per questo fenomeno l’affascinante definizione di “erranza del sintomo”.

Il ruolo dei social media

In tutto questo qual è stato il ruolo dei social media, tanto spesso additati come causa del disagio adolescenziale? Gli autori di entrambi gli studi concordano nell’affermare che certo l’ossessione per il confronto con gli altri, che appaiono sempre più belli e felici nelle foto postate sui social, è una fonte di crisi per l’adolescente in cerca della sua identità. Ma è anche vero, notano acutamente gli autori milanesi, che nei lunghi periodi di reclusione domestica per via della pandemia i social hanno assolto anche una funzione positiva di “mediatori”: sono stati l’unico modo che i ragazzi hanno avuto per restare in contatto con i coetanei e spesso anche un prezioso strumento per trovare informazioni rispetto alla salute mentale, aiutandoli a riconoscere i loro problemi in quelli che altri utenti condividevano e rendendo più facile una richiesta di aiuto.

Gianluigi Di Cesare, Isabella Panaccione, Erranza del sintomo e crisi identitaria. Riflessioni su adolescenza e pandemia,  sulla rivista «Psicobiettivo» 3/2021  LINK

Ilaria Carretta, Antonella Di Biase, Stefania Bruzzese, Raffaele Visintini L’effetto delle misure di lockdown sulla capacità di regolazione emotiva degli adolescenti. Uno studio su due realtà cliniche, sulla rivista «Psicobiettivo» 3/2021 LINK

 

 

 

 

 

Che cos’è l’empatia (e perché è molto diversa dalla simpatia)

L’empatia fa nascere una connessione, un legame fra le persone, mentre la simpatia porta a disconnettersi dagli altri. In questo bellissimo corto animato prodotto dall’inglese RSA (Royal Society of Arts) la dottoressa Brené Brown spiega come si può imparare a essere più empatici e perché è così importante.

Con la “fiaba” dell’orso, della volpe e del cervo Brené Brown ci ricorda che possiamo creare una connessione empatica vera solo se siamo abbastanza coraggiosi da metterci in contatto con le nostre fragilità. Del resto, qual è il modo migliore per alleviare le sofferenze di un’altra persona, un familiare, un amico o un semplice conoscente? “La verità è che raramente una risposta può migliorare le cose, ciò che davvero può essere d’aiuto è la connessione fra le persone”, risponde Brown.  

Brené Brown è una ricercatrice, professoressa e autrice del libro Osare in grande. Come il coraggio della vulnerabilità trasforma la nostra vita in famiglia, in amore e sul posto di lavoro (edizioni Ultra, 2013). È conosciuta per i suoi studi, oltre che sull’empatia, sulla vulnerabilità, il coraggio, il merito e la vergogna.  

Voce: Brené Brown; Animazioni: Katy Davis (Gobblynne) www.gobblynne.com; Produzione: Al Francis-Sears e Abi Stephenson

Madri e figlie al giorno d’oggi

Se ci mettiamo a confrontare le famiglie di ieri con le famiglie di oggi la prima differenza che probabilmente salta all’occhio riguarda l’affettività.

La famiglia dei nostri giorni ha perso quel rigore e quella rigidità che da sempre l’hanno caratterizzata per mettere al centro la felicità dei propri figli, la loro realizzazione e la loro libertà. Mentre la famiglia di ieri aveva come obiettivo il rispetto delle regole e dei ruoli all’interno di un sistema basato su colpe e punizioni, la famiglia di oggi è una famiglia affettiva, accogliente e stimolante.

Insieme alla famiglia, ad essere cambiati sono anche i rapporti genitori figli. Il ruolo della madre dedita all’accudimento dei figli e del marito ha lasciato il posto ad una donna post moderna, molto spesso wonder woman, impegnata in acrobatiche manovre per poter essere mamma, donna, lavoratrice e partner allo stesso tempo. Viene da chiedersi allora in che modo queste evoluzioni agiscono e condizionano i rapporto madre figlia.

Madri e figlie nella società del narcisismo

Crescere in un’epoca di grandi cambiamenti può essere un’esperienza arricchente e confusiva allo stesso tempo. Nella società del narcisismo dove tutto tende alla perfezione, le adolescenti di oggi vivono cercando di mantenere standard elevatissimi che siano estetici o intellettuali: possiamo incontrare adolescenti che puntano tutto sulla seduzione, sulla perfezione estetica e corporea e adolescenti che si impegnano duramente sul piano intellettuale facendo del successo scolastico l’obiettivo fondamentale della loro vita. Molto spesso questi due aspetti sono compresenti e rendono la vita dell’adolescente una corsa continua per coniugare forza, autonomia ed efficienza con fascino e seduzione. Ad ogni modo è certo che la perfezione e l’eccellenza entrano a gamba tesa a far parte dell’identità. La personalità delle adolescenti di oggi si basa e si struttura quindi su standard elevati di successo ed efficacia. In questo percorso verso la realizzazione di sé il rapporto con la madre assume un ruolo importante:  l’adolescente femmina  deve potersi separare psichicamente dalla madre e allo stesso tempo confrontarsi con lei per diventare una donna adulta.

Che succede se il modello materno è confuso e ambiguo?

Se la mamme diventano le migliori amiche delle figlie? Se non c’è più quel gradino di distinzione tra donna adulta e giovane donna? Che succede se le mamme di oggi, sempre più tese all’eterna giovinezza e a cancellare i segni del tempo, adottano uno stile di abbigliamento e di comportamento uguale a quello delle figlie? Se sono le madri a sbirciare nel guardaroba delle figlie (e non più il contrario) e a fermarsi a chiacchierare con le amiche delle figlie un po’ troppo a lungo? Succede che le differenze di generazione si assottigliano e che l’adolescente non ha più un modello dal quale emanciparsi. Se mia madre si veste come me, parla con le mie amiche quasi fosse una di noi, si comporta come fosse una mia amica per evitare conflitti e discussioni, che ne è del fervido e proficuo scontro generazionale?

Con questo non voglio dire che la responsabilità sia delle madri e del loro stile di comportamento: sono una madre anche io e conosco la difficoltà di esserlo in una società come la nostra. Come ho scritto all’inizio, le mamme di oggi si ritrovano incastrate in un meccanismo narcisista che promuove l’ideale della wonder woman. Una donna sempre giovane e ben tenuta, una lavoratrice accanita e allo stesso tempo madre e moglie impeccabile.

In questa corsa alla perfezione madri e figlie ne risentono sul piano psicologico e fisico. Le madri sono alle prese con lo stress da sovraccarico mentale, le figlie sempre più spesso utilizzano il corpo per esprimere il loro malessere. La diffusione epidemica dei disturbi alimentari nelle giovani donne ne è purtroppo la prova schiacciante.

Ph: Dal film Selfie di famiglia di Liza Azuelos (209)

 

 

Siamo invidiosi di chi ci assomiglia

Continuiamo il nostro viaggio nell’invidia. Ora, è vero che ci sono alcuni tipi di personalità più inclini all’invidia, ad esempio con problemi di autostima, ansia, depressione, irritabilità e tendenze ostili. Ci sono però alcune circostanze particolari nelle quali si può manifestare l’invidia anche negli invidiosi “occasionali”. Ecco quali.

Affinità con il rivale  

Si invidiano con maggiore probabilità coloro che sono vicini per tempo, spazio, età, reputazione. Una spiegazione molto probabile è che questa affinità induce pensieri che in psicologia sono chiamati “controfattuali”, ovvero del tipo “sarebbe potuto capitare a me”, stabilendo un confronto tra quello che è stato e quello che avrebbe potuto essere. Pensare “avrei potuto essere io” e constatare che invece non è così acuisce la sofferenza della frustrazione: i desideri frustrati che ci sembrano alla nostra portata fanno soffrire di più di quelli che vediamo per noi irraggiungibili e tendiamo a relegare in un mondo di fantasia. Ci sono anche aspetti legati all’autostima, perché dire “avrei potuto essere io”, significa che il vantaggio del rivale rappresenta in qualche modo una critica per lo svantaggiato. Buona parte del tormento, infatti, nasce dal sospetto che ci sia qualcosa di “sbagliato” (inadeguato, incapace, inconcludente) in lui.

Il confronto sociale e le sue funzioni

È proprio il confronto sociale che innesca o può innescare invidia, indipendentemente dalle caratteristiche caratteriali dei soggetti. Se non avvertiamo qualche affinità con l’altro, di solito il confronto non avviene o perde interesse o rilevanza. Tuttavia, bisogna precisare che si tratta spesso più di una somiglianza percepita, che può non corrispondere alla realtà dei fatti. Inoltre, come dimostrato da numerosi studi, si tratta di una somiglianza leggermente migliorativa. Cioè scegliamo persone che sono leggermente migliori di noi: un po’ più intelligenti, un po’ più capaci, un po’ più attraenti. Quale è il vantaggio di confrontarsi con chi è un po’ meglio di noi? Che ci fornisce strumenti per migliorare noi stessi, permettendoci di raggiungere la posizione della persona di riferimento. Confrontandoci con l’altra persona, possiamo capire meglio quali sono le nostre lacune e provare a colmarle. Per questo motivo è importante il confronto soltanto con chi è un po’ meglio di noi, altrimenti se la differenza fosse troppo grande, aumenterebbe soltanto la frustrazione.

Dal confronto “verso l’alto” al senso di inferiorità

Il confronto con chi è un po’ migliore di noi si caratterizza per una prima fase di parziale assimilazione. Con il tempo, emergono delle differenze tra noi e l’altra persona, e queste differenze possono condurre ad annullare l’assimilazione iniziale, facendo emergere inizialmente un effetto di contrasto, per poi arrivare a concludere di non essere come l’altro, ma inferiori a lui. Negli invidiosi, quindi, accade qualcosa del genere: si parte da un’aspettativa di somiglianza con l’avvantaggiato, poi il confronto con la realtà delude amaramente questa aspettativa e quindi gli invidiosi stessi sono dolorosamente costretti a riconoscere la propria inferiorità. Dopo questa delusione iniziale, paradossalmente, gli invidiosi si sentono spinti a confrontarsi ancora più spesso con l’invidiato, quasi lo spiano. Questi atteggiamenti li riconfermano nella delusione iniziale, che diventa sempre più cocente, perché ogni volta ribadisce la loro inferiorità.

Importanza del dominio di confronto

Per soffrire della nostra inferiorità, il dominio su cui avere il confronto deve essere importante per noi, e in particolare, per la nostra autostima. Per esempio, se mi confronto con un collega del mio stesso ambito professionale un po’ più brillante di me, ecco che avverto un certo disagio, un malessere che mi segnala che la mia autostima viene minacciata. Se invece si tratta di pregi che riguardano mia sorella o mio fratello, queste loro doti mi rendono orgoglioso, mi vanto delle loro imprese, come se i loro pregi si dovessero riflettere indirettamente su di me: del resto, si tratta dei miei fratelli! La psicologia sociale ha dimostrato che, se il confronto avviene in un dominio che non ha rilevanza per la mia autostima, quest’ultima non viene intaccata; anzi, quanto più ci vediamo simili all’avvantaggiato e abbiamo con lui un rapporto intimo (un parente, un amico, un amante), tanto più tendiamo ad identificarci con lui e questo porterà ad un potenziamento della nostra autostima, perché brilliamo di “luce riflessa”.

Quando invece il confronto avviene rispetto a scopi “autodefinitori”, cioè funzionali a definire la nostra identità e a stabilire il nostro valore personale, rilevare una nostra inferiorità in questi campi è una seria minaccia per la nostra autostima e suscita reazioni emotive molto negative, tra cui proprio l’invidia. In questo caso, tanto più intimo è il rapporto, tanto maggiore sarà la nostra sofferenza.

Per questo motivo risulta che le relazioni sentimentali o di amicizia tra persone con “aree di competenza” distinte siano meno conflittuali di quelle tra persone con aree di competenza simili. La distanza tra i domini di affermazione personale riduce il rischio di entrare in competizione e di provare sentimenti malevoli e imbarazzanti verso la persona cara. 

Fonte: Maria Miceli, L’invidia. Anatomia di un’emozione inconfessabile, Bologna, Il Mulino, 2012.